Timbuktu, Commento di Chiara Mezzalama (14-02-2015)
Timbuktu Regia di Abdelrrahmane Sissako (2014)
Commento di Chiara Mezzalama
Non è soltanto a causa delle lacrime che mi velano gli occhi da quasi la metà del film che non riesco a smettere di chiedermi perché. “Timbuktu” del regista Abdelrrahmane Sissako è un film che fa l’effetto di un muro. Devi fermarti perché oltre non si passa. Oltre sarebbe la capacità di comprendere e quindi in parte di giustificare il comportamento di certi uomini nei confronti degli altri esseri umani. Un piccolo villaggio del Mali è presidiato da un manipolo di jihadisti arrivati per imporre la legge della Sharia. Un uomo incappucciato gira con il megafono dettando le nuove leggi: le donne devono portare guanti e calzini, è vietata ogni forma di musica, svago, persino il calcio è vietato. E questi non sono che gli aspetti minori di una regola che fa della proibizione la sua unica regola. Uomini che si riempiono la bocca del nome di Dio per nascondere l’orrore che compiono le loro mani attraverso i fucili che non sono che appendici della loro follia e arroganza. Con chi se la prendono e perché?
Perché sono arrivati fino a lì, in piccolo villaggio dove la gente vive a contatto con la natura, una natura meravigliosa e tremenda, che insegna loro ogni giorno a rispettare sia la vita che la morte. Uomini che non possiedono nulla, se non la loro dignità. E così per Kidane, pastore nomade che vive con la moglie e la figlia dodicenne Toya in una tenda ai bordi del deserto. Il suo piccolo gregge è custodito da un ragazzino della stessa età di sua figlia. L’inizio del film è contraddistinto da un clima di minaccia da parte di questi membri della polizia islamica, uomini arrivati da ogni dove, la Libia, l’Iraq, la Siria, la Francia… tutti uniti dalla causa della guerra santa. Gli abitanti tentano qualche forma di resistenza: i ragazzi giocano a pallone senza palla, i musicisti suonano inni religiosi, le donne protestano ma sono poi costrette ad accettare delle regole sempre più assurde e incomprensibili.
Poi la situazione precipita. L’uccisione di una vacca ne è l’immagine simbolica. La morte di una creatura innocente che porta in grembo un vitello. Immagini che sembrano uscite da un profondo medioevo come la scena della lapidazione: le due teste di un ragazzo e una ragazza, accusati di adulterio, che sbucano dalla sabbia e vengono colpite con le pietre nel silenzio rotto soltanto dal pianto straziante di una mandria di cammelli.
Il film ci costringe a misurarci con il limite. Il limite della nostra capacità di comprensione del male, oscuro e sempre presente nella storia dell’uomo che sembra ripetersi senza fine, senza che mai nulla venga appreso dall’esperienza. Il limite delle nostre categorie di occidentali che non sanno arrivare al cuore di un modo aberrante di interpretare il credo religioso. In un’intervista il regista afferma che non si può raccontare la barbarie senza avere una speranza. In questo momento mi sembra così difficile. Un’angoscia catastrofica pervade ogni cosa, il risorgere di temi che si pensavano superati da tempo. Siamo costretti a rivedere tutte le nostre posizioni, che siano esse laiche o religiose. Siamo costretti a ripensare valori che erano considerati universali. A cominciare dalle donne, dai loro diritti, dal loro ruolo nella società, come sempre. Dov’è questa speranza di cui parla il regista? Questa domanda non smette di ossessionarmi. È nella bellezza dei panorami sconfinati, nello sguardo intenso e commovente della giovane Toya. È nel dialogo tra i due iman che rappresentano le due facce di una stessa religione: l’imam del villaggio, uomo pio e saggio afferma che la guerra santa non è altro che il lavoro interiore che serve a diventare uomini migliori. L’altro imam, quello con la barba, entra nella moschea con le armi e gli stivali, per lui la guerra è dare la morte agli infedeli. È tutta qui la differenza tra l’uomo e la bestia. Ce li portiamo dentro entrambi, da sempre.
14/02/2015