Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi. Commento di M. Priori

 

 

VITE NON VISSUTE

Esperienze in psicoanalisi

Thomas H. Ogden

 

 

Commento di Mario Priori

Dopo essere stato considerato per anni un continuatore ed un divulgatore capace di chiarire gli aspetti criptici del pensiero bioniano, alla luce dei suoi numerosi ed originali scritti teorici e clinici, ritengo si debba ormai includere T.H. Ogden tra i grandi pensatori della psicoanalisi. Erede e profondo innovatore della tradizione psicoanalitica, Ogden trova una propria originale collocazione tra i personaggi che hanno segnato la nascita e gli sviluppi più fecondi del pensiero psicoanalitico, come siamo soliti considerare Freud, Klein, Winnicott, Bion e Meltzer.

“Vite non vissute” ci restituisce la ricchezza dei passaggi cruciali del pensiero di Ogden attraverso esemplificazioni cliniche e sviluppi teorici le cui tappe possiamo ricostruire attraverso il concetto di terzo analitico, l’uso della rèverie, il concetto di posizione contiguo-autistica, l’uso del linguaggio in psicoanalisi, la rivisitazione dell’Edipo maschile e femminile, la psicoanalisi dei pazienti schizofrenici ed il rapporto fecondo tra psicoanalisi e letteratura. Con la consueta franchezza, in questo libro Ogden riprende i temi del suo pensiero psicoanalitico e del suo modo di fare psicoanalisi, precisandone talvolta i contorni ma anche enfatizzandone le imprecisioni e l’incoerenza formale: la coerenza delle teorizzazioni e la precisione formale non sembrano essere una delle sue preoccupazioni centrali…

Il filo rosso che attraversa le sue teorizzazioni ed esperienze cliniche possiamo trovarlo in una frase con la quale Ogden risponde alla domanda di un intervistatore, nell’ultimo capitolo del libro. Una frase breve, semplice e potente: quando l’intervistatore gli chiede quale potrebbe essere considerata una linea-guida del suo lavoro degli ultimi quaranta anni, Ogden risponde che la prima cosa che gli viene in mente è “…l’idea che siano necessarie almeno due persone per pensare…” (pag.160) . Almeno due persone affinché nasca una vita mentale da cui scaturisca la possibilità di pensare ed almeno due persone per superare l’impasse della sofferenza mentale che impedisce o distorce il pensiero. Questo ci dà le coordinate di una presenza profonda e molto particolare dell’analista nella seduta analitica, una presenza che Ogden descrive attraverso la capacità dell’analista di “sognare la seduta analitica”, un concetto che racchiude l’aspetto fondamentale del modo in cui egli pratica la psicoanalisi. Una concezione decisamente rivoluzionaria del sognare: nella tradizione freudiana il sognare tende ad una trasformazione da inconscio a conscio, per Ogden (e per Bion…) il sognare (pensiero onirico della veglia e del sonno) è un processo che trasforma esperienze consce e razionali con oggetti esterni in relazioni oggettuali interne, un pensiero che Ogden considera come il più ricco ed utile nel lavoro clinico. Il sognare (pensiero onirico) è per Ogden qualcosa di intrinsecamente terapeutico in quanto attivatore di ciò che Bion (1972) definisce funzione psicoanalitica della personalità. Gli effetti trasformativi dell’esperienza che accompagnano il pensiero onirico mettono in ombra il ruolo dell’interpretazione, considerata poco più che didascalica e comunque non centrale. Peraltro, Ogden mostra un certo compiacimento nel sentirsi considerato come un analista che non fa interpretazioni ma piuttosto conversazioni.

 Il sognare in seduta avviene attraverso la rèverie dell’analista e del paziente. Ogden descrive la rèverie dell’analista come uno stato che ci fa visita il più delle volte sotto forma di pensieri apparentemente assurdi o banali che riguardano la vita personale, una dimensione apparentemente intrusiva che l’analista è tentato di trascurare ma che rappresenta l’opportunità di sognare la seduta con il paziente. La rèverie ha la qualità di una costruzione inconscia del paziente e dell’analista che, assieme, creano un soggetto terzo inconscio (terzo analitico) che è il “sognatore” della rèverie e che viene sperimentato da paziente ed analista attraverso le proprie soggettività distinte consce ed inconsce. Il linguaggio dell’analista, il modo in cui egli parla al paziente, attinge alle sensazioni ed alle immagini della propria esperienza di rèverie. Questa presenza totale dell’analista nella seduta va oltre le sue capacità legate al sapere psicoanalitico e lo convoca in un rapporto profondo col paziente attraverso qualità umane che Ogden considera come fondamento della possibilità di svolgere un lavoro veramente psicoanalitico. Non è, questa, una semplice concezione romantica della psicoanalisi basata sull’amore dell’analista nei confronti del proprio lavoro e del paziente, si rifà piuttosto a peculiari caratteristiche di autenticità della persona dell’analista che gli permettono di essere in  grado di affrontare le angosce del paziente e , in chiave controtransferale, la capacità di poterle contenere ed elaborare senza sentirsi minacciati nella propria integrità e salute mentale. Quando ciò non avviene, il paziente diventa un antagonista per l’analista e l’analisi si trasforma in un processo che può avere un pericoloso effetto iatrogeno per la salute mentale di un paziente alle prese con una esperienza di rifiuto.

Tutto questo come doverosa premessa che possa dar conto dell’intensità e profonda originalità delle esemplificazioni cliniche riportate da Ogden.

In “Verità e cambiamento psichico”, primo capitolo del libro, Ogden dichiara che il suo intento nello scrivere è quello di capire chi è diventato (e sta diventando…) come psicoanalista, avendo in mente come obiettivo primario l’idea di dover inventare una psicoanalisi nuova con ogni paziente. Un accento sul qui ed ora di una seduta analitica che si dipana senza seguire un copione della tradizione psicoanalitica, una seduta originale ed unica come -Ogden dice- unico è il lavoro che possiamo fare solo e soltanto con quel determinato paziente. Un discorso che enfatizza il clima di profonda intimità che caratterizza il suo lavoro analitico: “Le conversazioni che ho con i pazienti sono tra le più intime della mia vita.” (pag.9). Ogden ci parla di alcuni aspetti legati al setting analitico (interno ed esterno…), parla dell’uso costante del divano come spazio per sognare assieme, della sua non osservanza della regola fondamentale, dell’uso che egli fa delle teorie psicoanalitiche… ma soprattutto parla di una vitalità della seduta che nasce dall’essere protesi verso la verità: riprendendo Bion (1972), egli dice che la mente umana ha bisogno di verità tanto quanto abbiamo bisogno di acqua e cibo. Il bisogno di verità non è una funzione di sorveglianza per mantenere un’etica di onestà, è piuttosto l’espressione di un bisogno della libertà di pensare la realtà della propria esperienza che è essenziale per la psicoanalisi come processo terapeutico. Per Ogden, sentire che la seduta non è viva, equivale al non sentirsi coinvolti in una esperienza autentica, ove ciò che ostacola il raggiungere l’autenticità è essenzialmente la paura della verità di ciò che sta accadendo in un determinato momento del rapporto analitico. Aiutare il paziente ad affrontare la verità della sua esperienza non deve essere un’esperienza conflittuale; Ogden non segnala qual’ è la verità (interpretazione) quanto piuttosto la vive con il paziente fino a quando egli non è in grado di sperimentarla da solo, fino a poterla in qualche modo esprimere. Come dire che la comprensione (avere un vissuto comune…) è una forma di comunicazione molto più profonda ed intima della spiegazione (interpretazione), una forma di comunicazione che implica in modo paradossale unisono e separatezza. Ancor più, comprendere è un fenomeno ontologico, in quanto esperienza in cui un aspetto di sé stessi viene riconosciuto da un’altra persona. Qualcosa che si può realizzare solo quando paziente ed analista vivono un sentimento comune di profonda fiducia: se venisse a mancare questo sentimento, l’esperienza di essere compresi potrebbe diventare terrorizzante (persecutorietà dell’oggetto).

“Tre forme di pensiero”, secondo capitolo del libro, inizia riprendendo gli orientamenti attuali della psicoanalisi che riportano la nostra attenzione, come clinici e teorici, più su come una persona pensa, piuttosto che su che cosa pensa. Ogden illustra alcuni dei modi in cui lo spostamento dell’accento dal contenuto simbolico al processo di pensiero abbia modificato il suo modo di affrontare il lavoro analitico. Egli individua tre forme di pensiero (pensiero magico, onirico e trasformativo) che convivono, che si creano e si proteggono a vicenda, e negano alcuni aspetti di ogni forma di pensiero. Non è possibile incontrare allo stato puro nessuna di queste tre forme di pensiero, così come non esiste una progressione dall’una all’altra forma. Ogden le vede piuttosto in tensione dialettica l’una con l’altra, così come considera la relazione tra mente inconscia e conscia, tra posizione schizoparanoide, depressiva e contiguo-autistica, tra parte psicotica e non psicotica della personalità, tra contenitore e contenuto, tra processo primario e processo secondario.

Il pensiero magico è quello che si basa su fantasie onnipotenti volte a creare una realtà psichica che la persona esperisce come più vera della realtà esterna. Il pensiero onirico è la forma di pensiero più profonda, attiva sia in stato di veglia che di sonno. È una attività inconscia che agisce assieme al pensiero conscio e preconscio. Attraverso questo tipo di pensiero attribuiamo significato all’esperienza da diversi punti di vista simultaneamente (pensiero primario e secondario, contenitore e contenuto…). Il pensiero onirico è alla base di una autentica crescita psicologica, può essere attivo quando siamo soli, ma vi sono particolari circostanze nelle quali abbiamo bisogno di un’altra persona con la quale pensare/sognare esperienze emotive che ci turbano e che da soli non riusciamo ad affrontare. Il pensiero trasformativo è una particolare forma di pensiero onirico in cui si creano nuovi modelli di codifica dell’esperienza grazie ai quali vengono prodotti nuovi significati, ma anche nuovi tipi di sensazioni, nuove forme di relazioni oggettuali e nuove qualità della vitalità fisica ed emotiva. Per quanto si possa dire, in generale, che è possibile incontrare rovesciamenti così tanto radicali del modo di pensare e di fare esperienza con pazienti gravemente disturbati, possiamo tuttavia incontrare questo tipo di pensiero con ogni tipo di pazienti.

I temi relativi a queste tre forme di pensiero vengono da Ogden rappresentati attraverso alcune interessanti esemplificazioni cliniche.

Il terzo capitolo (“La paura del crollo e la vita non vissuta”) affronta il tema dal quale Ogden ha tratto il titolo di questo libro.

Il capitolo prende avvio da una disamina profonda ed originale di una delle ultime opere di Winnicott (1971), “La paura del crollo”. Ogden definisce questo di Winnicott come uno scritto che nasconde una profonda complessità sotto le sembianze di una superficie apparentemente semplice. Ed è in questa complessità che Ogden si immerge appassionatamente trascinando con sé il lettore. Si usa comunemente liquidare questo articolo di Winnicott attraverso la considerazione che la paura del crollo che accompagna la vita di molte persone sia in realtà la paura per un crollo già avvenuto. Il punto su cui Ogden si sofferma non è tanto la retrodatazione del crollo, quanto piuttosto le condizioni in cui il trauma è avvenuto. Ciò che segna la vita delle persone e realizza quelle che vengono definite come “vite non vissute” è il fatto che l’esperienza traumatica sia stata vissuta in solitudine. In tali condizioni, le sensazioni che sono tollerabili nel contesto del legame madre-bambino diventano agonie primitive quando il bambino si trova a farne esperienza da solo. Proprio l’impossibilità a sperimentare l’esperienza del crollo avvenuto nel passato riverbera continuamente i suoi effetti su ogni momento presente della vita delle persone. Ogden riprende le argomentazioni di Winnicott, il quale parla di un crollo che si è mantenuto nascosto nell’inconscio della persona. Ci viene fatto notare come Winnicott intenda qualcosa che è diverso dall’inconscio rimosso freudiano e che si può piuttosto definire come un tipo particolare di inconscio che registra eventi (spesso più fisici che psichici) che accadono ma che non vengono sperimentati. Considerando la datazione dell’articolo (1971), Winnicott sembra anticipare i successivi notevoli contributi intorno al tema del tema dell’Inconscio non rimosso.  Per quanto Ogden sia ammirato dalle argomentazioni di Winnicott, ritiene tuttavia che la collocazione in veste di timore per il futuro per qualcosa che non è stato ancora integrato nell’Io del paziente non sia una spiegazione completa. Egli ritiene piuttosto che il motivo per il quale il paziente continui a preoccuparsi per il passato (domanda che è al centro delle argomentazioni di Winnicott) sia in realtà un “ri-vendicare quelle parti perdute di sé stesso per sentirsi infine completo, comprendendo dentro di sé il più possibile la sua vita non vissuta (non sperimentata)” (pag.63). Ogden ritiene tutto ciò come un bisogno universale di ogni persona di rivendicare qualcosa di sé che è andato perduto, una rivendicazione che esprime anche un bisogno di completezza che può mettere ancora in moto le potenzialità di essere. Egli ritiene che tutti noi, a differenti livelli, abbiamo avuto eventi della nostra vita precoce nei quali ci sia stato un crollo del legame madre-bambino, eventi ai quali abbiamo risposto con difese psicotiche. Per quanto possiamo essere visti (o ritenerci) abbastanza sani psichicamente, ciascuno di noi vive limitazioni più o meno vistose alla nostra vitalità emotiva. Ciascuna di queste limitazioni segnala parti perdute di noi stessi, parti di vita non vissuta. È possibile pensare che per buona parte delle analisi l’analista nel transfert-controtransfert aiuti il paziente a vivere la propria vita non vissuta.

Uno degli articoli più citati di Bion è “Note su memoria e desiderio” (1967), in particolare, citatissima è l’esortazione allo psicoanalista che “deve tendere ad una costante esclusione della memoria e del desiderio.” (pag.36- trad.it.1995). Questo brevissimo articolo di Bion, lungo appena due pagine, ha sempre messo a dura prova la capacità di comprendere di quanti vi hanno cercato un significato univoco ed ha sicuramente suscitato una miriade di interpretazioni, svolgendo in tal modo la sua funzione probabilmente più naturale. Quindi, un articolo breve e difficile…ci consola alquanto sentir dire da Ogden “MI ci sono voluti trent’anni di studio…per mettere in parole qualcosa di utilizzabile su questo lavoro.” (pag.73) e, ancora, che “già molto tempo fa mi ero rassegnato al fatto che non lo avrei mai capito.” (pag.73). Nonostante queste premesse scoraggiate, Ogden torna ad occuparsi di questo articolo di Bion allorché si rende conto dell’inutilità di qualsiasi sforzo di comprensione, del fatto che è un lavoro che non richiede di essere capito ma che, invece, chiede al lettore qualcosa di più difficile, promettendo qualcosa di più prezioso. Ogden ci dice di essersi reso conto che, a dispetto del titolo, l’articolo non si occupa affatto di memoria e di desiderio, quanto piuttosto di pensiero intuitivo e dei modi in cui esso funziona nella situazione analitica. La difficoltà ad approcciare l’articolo risiederebbe perciò nel fatto che nessuno potrebbe farci capire in che modo interpretare ciò che percepiamo della realtà psichica inconscia del paziente.

Le considerazioni di Ogden scrivendo questo quarto capitolo del libro non riguardano perciò quanto egli ha imparato leggendo “Note su memoria e desiderio” quanto piuttosto il modo in cui egli si è sentito trasformato dalla lettura di questo lavoro di Bion.

“Diventare uno psicoanalista”, quinto capitolo del libro, è sostanzialmente un invito agli analisti a preservare la possibilità di pensare ed esprimersi soggettivamente, nonostante gli ostacoli rappresentati dalla propria formazione, dal bisogno di una appartenenza formale ad una identità di “psicoanalista”, dall’incombenza delle teorie psicoanalitiche. Un invito all’autenticità ed alla valorizzazione delle proprie qualità umane, uniche condizioni che secondo Ogden permettono di svolgere un vero lavoro nell’incontro con il paziente: “diventare uno psicoanalista implica necessariamente la creazione di un’identità altamente personale, diversa da quella di ogni altro analista.” (pag.111).

Seguono due capitoli, sesto e settimo, che ci parlano dell’intreccio profondo e proficuo tra psicoanalisi e letteratura, un tema molto caro a Ogden, fonte di riflessioni e profonde esperienze trasformative. Egli ci parla in questo caso del suo personale “incontro” con Kafka e Borges, due autori molto citati ma anche non altrettanto letti che, eppure, attraverso la vitalità delle loro opere hanno trasformato il modo in cui l’essere umano pensa a sé stesso. Ogden ritiene che le opere di Kafka e Borges abbiano acquisito un valore mitologico e che, come accade per i miti, non occorre conoscerli a fondo per esserne influenzati: i miti sono i sogni di una cultura. La lettura delle loro opere non influenza soltanto ciò che il lettore pensa ma modifica anche la struttura stessa del suo pensiero. Questi due capitoli non ci riservano alcuna disamina psicoanalitica della vita e delle opere di Kafka e Borges, come ci si potrebbe aspettare avendo in mente i classici freudiani, quanto piuttosto ci propone un incontro vivido e umano di Ogden con le loro opere.

L’ultimo capitolo del libro è occupato da una lunga conversazione tra Ogden e Luca Di Donna, un collega di San Francisco. Quella che viene anticipata come una conversazione ha, in verità, il carattere di una vera e propria intervista: il collega di San Francisco non sembra poter resistere alla tentazione di rivolgere ad Ogden le domande che ciascuno di noi avrebbe voglia di fargli… È una parte molto piacevole del libro, al di là della possibilità di approfondire temi relativi alle teorizzazioni ed al modo in cui Ogden vive la “sua” psicoanalisi, emerge una narrazione molto fresca che ci avvicina all’Ogden-persona, attraverso una pensosità molto spontanea che ci offre una preziosa occasione di avvicinare il suo modo di pensare piuttosto che i contenuti dei suoi pensieri.

Concludo questa recensione dicendo che quello di cui ho parlato è il mio personale incontro con Ogden attraverso i suoi scritti, in particolare con “Vite non vissute”, ho riportato le mie impressioni e ciò che mi sembra di aver capito di ciò che egli scrive. Non mi rimane che invitare chi mi sta leggendo a vivere l’esperienza del proprio incontro con T.H. Ogden.

20/09/2021

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