The danish girl. Commento di Giovanna Maria D’Amato (05.04.2016)

­ Danish girl
The danish girl

 

Commento di Maria Giovanna D’Amato

 

Il film, diretto da Tom Hooper nel 2015 e presentato anche alla mostra di Venezia, è tratto dal romanzo “La Danese”, scritto nel 2000 da David Ebershoff.

 

La storia, vera, è quella del primo transgender che tenta la trasformazione chirurgica della sua identità fenomenologica e muore; la storia è anche quella di un legame fortissimo tra due persone che sembrano non poter fare a meno l’uno dell’altra, anche se con obiettivi diversi; è quella di un’attività artistica che si spegne e di una che nasce dalle ceneri di un’esistenza, anzi di due esistenze, della disperazione del coraggio e del coraggio della disperazione. Soprattutto, vorrei dire che è la storia di una scissione.

 

Olanda, anni 20, dopo la fine della grande guerra e nel tempo che si va preparando la seconda tragedia del secolo. Einar Wegener e Gerda sono giovani, belli, innamorati, artisti e devoti alla trasgressione come tutti gli artisti. Della loro storia precedente non sappiamo nulla. Lui è un apprezzato paesaggista, lei non riesce ancora a trovare la sua cifra d’artista nei ritratti che dipinge, fino a quando, un giorno, chiede per caso al marito di posare nei panni di una sua modella che non è disponibile in quel momento. (Ma siamo sicuri che è proprio per caso? Prima lo abbiamo visto indossare una camicia da notte della moglie sotto i panni maschili, e lei non si è proprio sconvolta, forse lo ha preso come un feticcio amoroso, forse le è piaciuto il gioco). Poco più avanti gli proporrà di andare a una festa, lui nascosto sotto la maschera di una donna, la cugina Lili, che da quel momento diventerà il doppio del personaggio.

 

Poiché questa non è una rubrica di critica cinematografica, non mi soffermo sugli aspetti estetici del film, né su come è stata trattata la materia, che ha ricevuto molti apprezzamenti da alcuni e molte critiche da altri. Personalmente ho amato l’ambientazione pittorica, il dramma recitato dagli sguardi, le pennellate paesaggistiche che costellavano il film come l’arte, poi abbandonata, di Einer. Infatti è questo che accade. Man mano che l’ossessione di Einer per il suo sentirsi donna intrappolata in un corpo maschile prende sempre più piede, egli smette di dipingere i paesaggi che fino a quel momento della storia avevano fatto di lui un pittore apprezzato, mentre la pittura di Gerda, che lo ritrae negli aspetti in cui egli si sente e riconosce, viene sempre più ammirata dal pubblico. E’interessante che l’ultimo quadro davanti al quale lo vediamo impegnato è un paesaggio della sua infanzia che ritrae una palude, (unica allusione a un passato), un lavoro che non lo soddisfa mai, mentre dice a Gerda che: la palude (per la quale non riesce a trovare i colori giusti) è dentro di me. Intanto tutta la loro vita cambia, la coppia va a Parigi, consultano un medico, inutilmente, lui si presenta sempre più spesso come Lili, lei non ha più un marito, ma rimane al suo fianco. Nel tentativo di essere quello che Einer sente di essere veramente, di diventare Lili per sempre, egli si annienterà, affidandosi con l’audacia di chi lotta per vivere o morire alla chirurgia sperimentale che muove i primi passi in quegli anni che precedono solo di poco la messa al bando di ogni diversità, dalla razza alle idee, al sesso, sotto l’etichetta della criminalità o perversione. Siamo infatti, come si diceva all’inizio, nell’epoca che precede l’avvento del nazismo.

 

Il film mi ha fortemente suggestionato per la vivezza della situazione di intollerabilità in cui si trova una persona costretta a vivere in tale scissione biopsichica e mi ha richiamato alla mente un magnifico esempio clinico riportato da Danielle Quinodoz, nel libro “Le parole che toccano”, in cui si parla dell’analisi di una persona che , dopo aver cambiato sesso, (dal genere maschile era “transitato” a quello femminile), viene a chiedere dopo venti anni un’analisi, perché “soffriva di un insopportabile male di vivere e descriveva in modo preciso un sentimento di assenza di coesione interna”. La confusione di Simone è pienamente raccolta e vissuta nel controtrasfert dell’analista, che per lungo tempo non riesce a pensare alla paziente come una lei o un lui. La sua capacità di tollerare la situazione di ambiguità, unitamente a tutto un lavoro teso a costruire un sentimento di integrazione delle varie parti, permetterà lentamente a Simone di capire che “il sentimento di essere una persona intera non dipende dall’integrità del corpo reale ma dal sentimento interiore di essere una persona totale”.

 

Mi sembra quindi che si parli essenzialmente del concetto di identità, che in una persona così disperatamente scissa tra corpo biologico e corpo psichico viene totalmente a mancare, e sto parlando del primo sentimento di identità, quello che emerge dalla differenziazione dall’oggetto e dal riconoscimento dell’altro. L’identità di genere viene dopo: nasce da una scelta che implica sul piano reale una rinuncia, mentre sappiamo che sul piano interno ognuno di noi ha accesso a una realtà psichica bisessuale, o perlomeno che contenga aspetti di ambo i sessi, frutto dell’identificazione con entrambi i genitori.

 

Stiamo attraversando una epoca di grandi cambiamenti e turbamenti per l’individuo, un’epoca fervida di possibilità che da una parte sollecitano una migliore qualità di vita, dall’altra sembrano dimenticare, travolti da un delirio narcisistico di onnipotenza, il limite insito nella condizione di essere umano. Certo sentirsi donna (o uomo), in un corpo che porta le caratteristiche del sesso opposto è una condizione di enorme sofferenza, a cui oggi una chirurgia più avveduta e perfezionata può porre qualche rimedio. Ma è sufficiente?

 

Indubbiamente come analisti possiamo chiederci quando nasce questa impossibilità di integrare le parti e comporre la scissione, e forse troveremo la risposta che sta sempre dietro tutte le grandi patologie che appartengono agli stadi primitivi dello sviluppo, in una fallita differenziazione dalla fusione primigenia. Tuttavia non so se possiamo rinunciare a immaginare che possa esserci dell’altro, inesplorato, forse ascrivibile solo al campo della diversità, che, come dice la Mc Dougall, può fare da garante rispetto all’esplosione della psicosi (vedi “A favore di una certa anormalità”).

 

Quello che mi sembra irrinunciabile, però, e che spesso mi sembra venga bypassato dalle discussioni politico-legali sulla approvazione o meno di una legge, è il concetto di integrità della persona, che può stare, come il caso di Simone riportato dalla Quinodoz insegna, anche nell’ambiguità di un trans, e altrettanto mi sembra inderogabile che l’integrazione discenda dalla acquisizione del sentimento di una identità esistenziale della persona. E’ questa identità esistenziale che permette, pur in un sentimento di eterogeneità (termine usato dalla Quinodoz) quale può essere quello di un trans, di acquisire la capacità di amare e la fiducia di essere amati.

 

Infatti Einer abbandonerà la pittura, non riuscirà più a lavorare, tanto meno a costruire un rapporto d’amore, vivrà appoggiandosi all’abnegazione della moglie e dell’amico d’infanzia, perso dietro la sua ossessione che rasenta il delirio di diventare altro da sé, ma forse dovremmo dire di diventare qualcuno da un sé che non c’è mai stato. Significative mi sembrano le sue ultime parole, prima di morire:

 

“Ieri notte ho fatto un sogno bellissimo. Ho sognato di essere una bambina tra le braccia di mia madre. Lei mi guardava negli occhi e mi chiamava Lili”.

 

 

07/04/2016

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