Patria Potestas (Cineforum). Commento di Ciannella C. e D'Amato G.M. 19-06-2012

PATRIA POTESTAS

 

La figura del padre fra cinema e psicoanalisi

 

Di Carmine Ciannella e Giovanna Maria D’Amato


Grazie alla collaborazione ad un cineforum fatto con la sede napoletana dell’A.I.P.P.I. abbiamo avuto modo di vedere un certo numero di film, di approfondirne i contenuti e di discuterne, prima in gruppi di lavoro ristretti e, poi, in platee più ampie. Solitamente questi cineforum si pongono l'obiettivo di utilizzare il cinema e la sensibilità artistica di autori, registi ed attori per approfondire aree tematiche relativamente circoscritte dalla prospettiva della nostra esperienza professionale. Ciò "costringe" noi organizzatori ad una catalogazione tanto forzata quanto approssimativa: proviamo, cioè, a rintracciare nelle nostre memorie di cinefili dilettanti (e chiedendo indicazioni ad amici e colleghi “competenti”), le opere che trattano quel tema e che sono rimaste impresse nel corso del tempo. Essendo questo un lavoro fatto in gruppo, le variabili che entrano in gioco nella scelta sono tante e poco controllabili; ciò nonostante riteniamo che il risultato di tale lavoro possa essere condiviso ed utilizzato, se non altro, come uno fra i tanti punti di partenza possibili per nuovi approfondimenti. PATRIA POTESTAS I film che abbiamo scelto per il cineforum sulla figura paterna sono stati: “Il ritorno” (a cui abbiamo dato come sottotitolo La necessità del padre); “Colpire al cuore” (La legge del padre); “L’Aria salata” (Tra colpa e riparazione); “Festen” (Il segreto familiare); “Il papà di Giovanna” (L’amore del padre). A tutti i titoli abbiamo aggiunto delle didascalie che ci sembrava evidenziassero quegli aspetti particolari della funzione paterna trattati con una certa significatività in quel film. Ci siamo resi conto, a posteriori, di avere puntato esclusivamente su padri o decisamente negativi o fortemente ambigui nello svolgimento del loro ruolo; come se avessimo inconsapevolmente scelto di puntare su una sorta di lavoro al negativo: evidenziare quello che non funziona, o manca, per sottolineare ciò che invece risulta essenziale della funzione paterna. Un elemento fortemente comune e caratterizzante delle situazioni rappresentate nei film scelti, è stato la peculiarità delle madri che accompagnavano i nostri padri protagonisti. Si trattava sempre di madri assenti, o presenti in maniera disturbante e disturbata, non soltanto poco attente ai bisogni della prole, ma incapaci di svolgere una funzione di traghettamento del bambino dalla relazione diadica alla triangolazione. Infatti se è vero che la figura del padre è fondamentale per facilitare e sostenere l’uscita dalla simbiosi originaria ed il processo di separazione dalla madre, è altrettanto necessario che il padre sia nella mente della madre come un oggetto buono, desiderato e desiderante, e come tale possa essere presentato al bambino. Il ritorno (di Andrey Zvyagintsev, Russia, 2003, 106'. Vincitore del Leone d'oro alla 60ª Mostra Cinematografica di Venezia) è il primo film scelto per la rassegna Patria Potestas. La vita di due fratelli, Andrey adolescente e Ivan ancora bambino, è improvvisamente sconvolta dall'arrivo del padre che loro conoscono solo attraverso una vecchia fotografia. Questa figura, al tempo stesso molto viva nella mente dei ragazzi ed estranea alle loro vite, si presentifica con una violenza sempre più esplicita e manifesta. Il tutto è accompagnato da un'atmosfera di grande mistero che permane fino (ed oltre) alla fine del film. All’improvviso arrivo del padre dopo una misteriosa e lunga assenza, al suo rivolgersi ai figli con una funzione normativa ed educativa che dovrebbe “iniziarli” e accompagnarli nel passaggio all’adolescenza, si contrappone una madre che appare totalmente sprovvista di capacità di mediazione tra di loro. Senza spiegazioni chiarificatrici né sull’assenza, né sul repentino ritorno - che sembra rompere bruscamente, specie per il figlio minore, l’incanto del giardino materno - ella riesce solo a pronunciare questa breve frase: <>. In questo modo la donna introduce della presenza paterna solo l’elemento persecutorio e superegoico (forse vissuta in questo modo anche da lei stessa). Il giorno dopo “il ritorno” la donna consegnerà i ragazzi allo sconosciuto padre per un viaggio iniziatico che sarà fortemente traumatico per tutti, con conseguenze tragiche. Nel corso di questo viaggio i due ragazzi sembrano esprimere i vissuti ambivalenti che spesso si concentrano sui padri: il più grande può, anche attraverso un processo di identificazione, accettarne almeno in parte l'autorità (e quindi gli ordini, i consigli, le indicazioni, ecc.); il più piccolo, invece, si fa carico di tutti i sentimenti negativi (l'odio, la ribellione, la difficoltà ad avere fiducia nelle sue capacità ed intenzioni di cura, il risentimento per la separazione subita dalla madre, per le punizioni, per le mancate risposte ai propri interrogativi, ecc.). Il percorso che i tre personaggi intraprenderanno ha una connotazione pesantemente ambigua: il padre lascia intendere che andranno in gita, a pescare; nello stesso tempo appare molto concentrato a portare a termine un suo oscuro compito. Possiamo dire che questa figura si presta molto bene a rappresentare l’aspetto oscuro, di “uomo nero”, che si cela in ogni padre, per il solo fatto, essenziale, di essere il terzo che intrude e separa la coppia originaria madre-bambino. Il tono e l'epilogo drammatico della vicenda possono essere visti come la rappresentazione del complesso e doloroso percorso di crescita di padri e figli sottoposti ognuno alle proprie vicissitudini esistenziali: i padri con le difficoltà a rispondere contemporaneamente a pressioni sociali, ambizioni personali, spinte sessuali ed affettive da un lato ed il compito, la responsabilità genitoriale, il desiderio di voler trasmettere il proprio sistema di valori dall'altro; i figli adolescenti con la necessità di confrontarsi con i propri cambiamenti, con quella di separarsi dalla sfera materna e stabilire una nuova identità anche attraverso altre significative identificazioni, a gestire i rapporti nel gruppo dei pari ed a rimodulare la rivalità ed il legame affettivo con il padre. Il film si apre a molte e diverse interpretazioni, e l'ambientazione poco definita sul piano temporale, gli scenari caratterizzati da splendidi paesaggi dai colori freddi e da atmosfere spesso nebbiose, l'essenzialità nei rapporti tra i tre protagonisti accentuano il senso di incertezza nello spettatore che è analoga a quella dei personaggi circa la cognizione di quello che sta loro realmente accadendo. Commovente è la prova dei due giovani protagonisti anche alla luce della sfortunata sorte di Vladimir Garin (Andrey), annegato nello stesso lago che si vede nel film. Colpire al cuore di Gianni Amelio (Italia, 1982, 108') con Jean-Louis Trintignant ed una giovane Laura Morante è stato il secondo titolo della rassegna. La vicenda del film è imperniata sul rapporto fra Emilio (David di Donatello 1983 per il migliore attore esordiente a Fausto Rossi), un ragazzo quindicenne intelligente e sensibile, e suo padre Dario (Jean-Louis Trintignant), professore all'Università di Milano. Il tema dei rapporti personali, del legame padre - figlio, si intreccia con quello drammatico del terrorismo italiano degli “anni di piombo”. Emilio con gli intensi silenzi e le rare e pesanti parole, è un adolescente che sembra giudicare severamente gli adulti ponendosi, con la sua macchina fotografica, come un “osservatore” attento del loro mondo. In questa posizione da osservatore egli diventa suo malgrado testimone di una scena di morte consumata nelle strade di Milano: dopo un attentato un brigatista è rimasto a terra ucciso dai Carabinieri. Il terrorista ucciso è Sandro, un allievo del padre, che ha conosciuto proprio qualche giorno prima. Quello che vede, quindi, lo costringe a leggere in maniera diversa esperienze vissute in precedenza e legate alle relazioni paterne. Il sottotitolo del film, “La legge del padre”, sembra mettere in chiaro che la tematica trattata è però quella edipica anche se in questo lavoro ci sembra di poter "mettere a fuoco” due crisi edipiche - quella di Dario e quella di Emilio - che scorrono parallele fino ad intersecarsi in maniera drammatica. Così la tensione, l'evidente sforzo di padre e figlio di tentare di costruire un buon rapporto viene ripetutamente reso vano da tensioni interne inconsapevolmente attive in ognuno di loro. In particolare le contrapposizioni e le svalutazioni di Dario nei confronti del mondo accademico cui appartiene e delle istituzioni (le sue attuali figure superegoiche) giocano un ruolo importante nei rapporti con il figlio. Egli ammetterà, nella fase della storia in cui il loro rapporto è in evidente crisi, di non saper essere una figura che traccia per il proprio figlio un confine netto tra bene e male, segnalando una sua difficoltà a rapportarsi alle leggi paterne. Forse è per questi motivi che Dario lascia Emilio in un’aria di confusione non aiutandolo a decifrare eventi che vedono coinvolto il genitore e, alimentando l'incomprensione e la rabbia del ragazzo, non riesce a trovare una modalità di rapporto sia pure conflittuale ma non distruttiva con il figlio. Emilio sembra mostrarci le sue problematiche edipiche anche quando, con l’occhio della macchina fotografica, cattura immagini “compromettenti”, immagini in cui gli adulti sembrano sempre colpevoli di qualcosa. Con quest’occhio che spia, che guarda di nascosto osserva gli adulti, le coppie, i loro segreti. In questa storia sembra significativo che la madre compaia sulla scena poche volte e quasi sempre con le cuffie alle orecchie (intenta al suo lavoro di traduttrice). Ci appare così sorda, non solo a quanto accade intorno a lei, ma soprattutto ai turbamenti del figlio. Se il ragazzo è alle prese con una legge paterna fortemente messa in discussione anche dal contesto sociopolitico in cui è immerso il padre stesso (egli invece si appella alla regola salvifica, ad un ordine “superiore”), la madre sembra completamente fuori dalle dinamiche che intercorrono tra il padre e il figlio (e tra loro e gli altri figli ideali come gli allievi del professore). La madre veste i panni di una figura quasi assolutamente silenziosa e “sorda”. Il figlio sembra attribuirle l'esclusione dal mondo, la “non comprensione” di quanto accade intorno a sé e, forse, una forte spinta a “negare” la realtà che la circonda. In una scena il ragazzo accarezza la testa e le spalle della madre, che sorride con le orecchie tappate dalle consuete cuffie ripetendole a voce alta: <>. In realtà è lui stesso a sentirsi escluso, escluso dalla verità, da quello che il padre non potrà e non saprà dirgli e, alla fine, opterà per una “legge” che sta al di sopra del padre, più rigida, più netta: quella dello Stato, della polizia e dei giudici. Altro padre improvvisamente ritrovato dopo un lungo abbandono è quello che Fabio (Giorgio Pasotti), un educatore nel carcere di Rebibbia, si vede assegnato come detenuto nel film L’aria salata di Alessandro Angelini (Italia, 2006, 87'). Probabilmente la precisa descrizione del mondo carcerario e delle relazioni che lo regolano sono anche il frutto delle esperienze fatte dal regista durante un periodo di lavoro come volontario nel carcere di Rebibbia. Luigi (interpretato da Giorgio Colangeli), giudicato per omicidio, scomparve dalla vita di Fabio quando questi aveva sei anni a seguito del rifiuto della moglie a incontrarlo e farlo incontrare con i figli dopo la condanna. L'uomo è inizialmente ignaro del legame che lo unisce a Fabio il quale, nonostante sia pieno di risentimento nei suoi confronti, decide di aiutarlo. Il confronto però è difficile e doloroso e porterà ad un finale drammatico che sembra decretare l'impossibilità dei protagonisti ad elaborare la frattura del loro rapporto. Il personaggio di Fabio ed il suo lavoro di educatore in carcere così ben delineati ci consentono di sottolineare come la scelta professionale, nella realtà come nella finzione, sia spesso legata a vicende personali più o meno elaborate e "risolte". In questo caso il protagonista sembra farsi carico di tenere aperta una dolorosa questione individuale e familiare e di tentare una cura, una modifica della propria storia attraverso un aiuto offerto ad altri. Significativi in questo senso sono i passaggi nel film in cui egli tenta di aiutare un figlio a superare il rifiuto del genitore recluso ed il padre a tollerare lo stesso rifiuto per recuperarne l'affetto. Ciò avviene con esiti alterni dovuti anche alle interferenze ed alle potenzialità provenienti dalla propria personale storia di vita. Per quanto riguarda lo specifico della relazione fra Luigi ed il figlio, colpisce la tenacia (al limite del masochismo) con cui, a dispetto delle sofferenze e delle frustrazioni, Fabio tenti di avvicinarsi al genitore abbandonico e violento. Particolare è inoltre il capovolgimento delle apparentemente "ordinarie" posizioni di genitore e di figlio: qui è Fabio ad avere delle aspettative nei confronti del padre (si aspetta un pentimento, vorrebbe che rinunciasse a rispettare le regole non dette del carcere, si aspetta un ruolo di padre, ecc.); egli sembra avere nella mente un padre ideale molto distante da quello reale. Luigi tuttavia non riesce a reggere tali aspettative ed il vissuto di sofferenza, di umiliazione e di impotenza che esse gli procurano, lo porterà ad uccidersi. Se consideriamo il vertice proposto all’inizio del ruolo della figura materna nella dinamica padri – figli, sembra evidente che l’assenza del padre qui è stata determinata, oltre che dalla detenzione, dalla cancellazione della sua figura operata dalla madre nei confronti dei figli. Non c’è stato nessun tentativo né di comprendere, né di cercare di mantenere un’immagine paterna nella mente dei figli. In un passaggio in cui tenterà di spiegare la sua colpa, il padre si lamenterà della mancanza totale di aiuto da parte della moglie, anche sul piano legale: i soldi da lui guadagnati sono stati investiti esclusivamente nella famiglia, senza pensare a una miglior difesa dell’imputato, a un appello, per es. Mentre il protagonista tenta tra sentimenti ambivalenti di rancore e rimpianto di dare un senso alla loro storia e forse di ricostruire un legame, la sorella rappresenta con molta più convinzione la scelta materna di cancellare dalla sua mente e da quella dei figli il padre colpevole. Si potrebbe dire che anche il suicidio del padre, concretizzando l’annullamento della sua figura, sancisca l’impossibilità di accedere a un buon legame se non è mutuato dalla madre. Festen (Danimarca, 1998, 106’) di Thomas Vinterberg il quarto scelto per la rassegna patria potestas. In quest’ultimo il tema dell’abuso di un padre - patriarca nei confronti di due dei figli (di cui una morta suicida), si rivela nel corso della festa di compleanno dello stesso. Particolare qui è anche l’adesione del regista ad una serie di rigide regole cinematografiche (Dogma 95) che impongono, tra l’altro, lo svolgimento della storia in un unico continuum spazio temporale. In questo film se il padre è il mostro, l’abusante, la madre, come quasi sempre accade nelle storie familiari di abuso, è la complice apparentemente ignara della violenza del padre. Il segreto familiare è sostenuto dal silenzio delle vittime, ma soprattutto dalla presunta inconsapevolezza della madre, che rimane al fianco del marito anche oltre il doloroso e coraggioso svelamento dello stesso da parte del primogenito. La speranza della risalita dall’inferno è suggellata dalla scena finale in cui per la prima volta la madre, dopo che il padre avrà finalmente chiesto perdono (con questo dando il primo segno di riconoscimento di un’identità al primogenito e attraverso di lui agli altri), sceglie di restare accanto ai figli. Il papà di Giovanna di Pupi Avati (2008) tratta di un padre (Michele, interpretato da Silvio Orlando) che si pone come mediatore nel difficile rapporto fra la moglie Delia (Francesca Neri) e la figlia Giovanna (Alba Rohrwacher) con una modalità protettiva, ma ambigua È anche la storia di un delicato rapporto tra un padre e una figlia psicotica e di un feroce attaccamento preedipico della figlia a una madre idealizzata e invidiata che ha sposato il marito solo per salvarsi dalla miseria e dalla prostituzione, e coltiva in segreto un rapporto con un altro uomo. La coppia genitoriale qui rappresentata non è portatrice di un legame “erotico” e fecondo, ma di un rapporto caratterizzato dalla svalutazione, dalla menzogna e dalla negazione. L’amore di Michele per la figlia diviene quindi il rifugio dell’uomo dal disprezzo della moglie e l’ancora a cui si aggrappa per misconoscere la realtà: in altri termini è l’espressione di una forte identificazione di Michele con Giovanna, entrambi rifiutati, sebbene per motivi diversi, dalla bella Delia. Di conseguenza il suo sguardo nei confronti della ragazza è pesantemente ambiguo, e sostiene in Giovanna un’immagine di sé alterata e grandiosa con cui tenta maldestramente di compensare il rifiuto materno e quello dei suoi coetanei. Sulla base di questo delirio la ragazza trasferirà su una compagna l’invidia e l’odio per la madre bella e ammirata; allo stesso tempo, però, sarà lei a percepirsi come l’oggetto dell’invidia da parte della compagna per la coppia idealizzata di cui si ritiene parte. Quanto alla madre, ella appare molto più consapevole del marito della realtà di Giovanna e della qualità patologica della sua condotta, consapevole anche di come questa sia rinforzata dalle amorose menzogne del padre. Tuttavia non ha nessuna capacità di contenere la deriva psicotica delle dinamiche intrapsichiche della figlia, come se fosse assolutamente sprovvista di capacità elaborative, intrappolata com'è tra i sensi di colpa e la rabbia per legami che sente obbligati e frustranti. Questo breve lavoro sui film scelti per la nostra rassegna risponde all’obiettivo dichiarato all’inizio di condividere un lavoro di riflessione su film scelti per una specifica area tematica nell’ottica di stimolare ulteriori spunti, richiami ed approfondimenti. D'altronde lo stesso tema della figura paterna può essere approcciato da numerosi punti di vista rendendo il campo potenzialmente molto più ampio. Forse un elemento di contatto fra il cinema e la tematica scelta sta nel tipo di funzioni emotive che esso mette in gioco. I film, con la loro caratteristica di raccontare storie, possono essere visti come una sofisticata elaborazione della consuetudine materna di descrivere al proprio bambino le esperienze emotive che va sperimentando ed il mondo esterno con cui via via entra in contatto. Attraverso questo comportamento apparentemente semplice, la madre introduce un elemento terzo (e per questo simbolicamente paterno) fra sé ed il figlio: descrive queste realtà attraverso un atto creativo che si aggiunge a quello originario attraverso cui ha messo al mondo il proprio bambino. Il cinema raccontando storie nella sua particolare maniera è anch'esso un elemento terzo, qualcosa che ci consente di osservare la realtà in assenza della stessa . Ciò che permette al bambino di padroneggiare la distanza fra sé e la madre (e poi la sua assenza) è la capacità della madre di introdurre il mondo, la presenza del padre, ecc., fra sé ed il bambino in una maniera tollerabile e sopportabile per quest'ultimo. Allo stesso modo il cinema ci propone le cose del mondo e degli uomini - anche le più crude e dolorose - deformandole quel tanto che basta per farcele vedere più belle e per farcele sembrare più accettabili. In entrambi i casi questa funzione ci consente di dare un ordine (ancora una volta un elemento dalle qualità paterne) al caos generato dalle esperienze che facciamo e dal relativo ventaglio di passioni umane che tali esperienze accompagnano.

19/06/2012

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