Oltre il giardino. Commento di Aurora Gentile (29-05-2015)

Oltre il giardino, di Hal Hasby (1979)

 

Commento di Aurora Gentile

 

Le istituzioni non svolgono più quella che è la loro principale funzione di assicurare continuità e regolarità alla vita delle nostre società. Il fondo impercettibile della nostra vita psichica, fino ad un certo punto gestito dai garanti metafisici, sociali e culturali della continuità e del senso, fa così violentemente irruzione nella scena psichica e in quella sociale.

 

L’individuo, il singolo umano, deve ormai autoregolarsi, data l’estrema precarietà dei riferimenti simbolici. Questo regime autarchico determina una nuova economia psichica che dà libero corso al godimento a scapito del desiderio, gli stessi meccanismi sono all’opera nell’economia finanziaria e nell’attuale economia psichica: diniego del reale in favore del virtuale e dell’immaginario, scatenamento e scarica precipitosa delle pulsioni. Probabilmente, se volessimo tracciare delle grandi coordinate, oggi è possibile osservare questa trasformazione delle modalità del pensiero e del suo funzionamento, nella crescita della dimensione orizzontale fornita dalla rete e di come elementi identitari a forte prevalenza religiosa, ad esempio, la riutilizzino per imporre ad essa modelli verticalizzati atti a raffreddare la scomposizione simbolica che ne deriva (si pensi al ruolo dell’ideologia islamica radicale nell’uso di internet).

 

Oltre il giardino” (titolo originale Being there) annuncia questa crisi, è tratto infatti da un romanzo del 1971, (ricordiamo che all’epoca in America stava per scoppiare lo scandalo Watergate), e potremmo definirlo anche come una feroce favola minimalista sulla realtà assurda della cultura dei media americani.  Ma a guardare bene è molto più di questo. Vale la pena pertanto rivederlo, rileggerlo. Accade per i film, come per qualsiasi produzione umana, che il tempo necessariamente li altera, ma proprio per questo continuano a generare nuove idee, negando o rafforzando  le letture dei tempi precedenti. Da questo punto di vista, ogni film contiene in forme più o meno implicite un’analisi del proprio tempo e ogni nuova visione implica sempre un’operazione anacronistica, ma proprio per questo può essere molto fruttuosa.

 

 Il film uscito nel 1979, come scrivevo, è tratto da un romanzo del 1971 dello scrittore polacco naturalizzato americano Jerzy Kosinski, intitolato “Being there”, Kosinski curerà anche la sceneggiatura del film.

 

“Oltre il giardino” nasce in effetti dall’incontro di tre  singolari artisti, Jerzy Kosinski, Hal Asby che ne è il regista e Peter Sellers, nel ruolo del protagonista, che hanno tra loro, penso, profonde affinità elettive: personalità tormentate, dalla difficile storia familiare, contrassegnata da quello che potremmo chiamare, e credo sia questo un carattere fondamentale, una sorta di “apatridismo”, senza patria e senza padri, personalità geniali che hanno tutte contribuito a fare di questo film un piccolo capolavoro.

 

La verità interna del protagonista, Chance il giardiniere, così enigmatica, può essere rischiarata alla luce di questo fatto elementare, che i suoi creatori vi hanno probabilmente trasferito nel crearlo, l’esperienza di un’assenza, di un vuoto al centro, per parafrasare il titolo di un piccolissimoma splendido saggio di Winnicott del 1959, “Niente al centro” (in Esplorazioni psicoanalitiche), in cui Winnicott scrive sull’importanza di riconoscere insieme al paziente, “dietro l’angolo” delle difese maniacali, al di là “dell’incredibile quantità di cose alle quali nella vita (il paziente) doveva reagire” che “al centro non c’era nulla”: “l’essenza dell’interpretazione era che esisteva un Sé dissociato che era nulla, nulla perché era nient’altro che un vuoto, e quando questo vuoto veniva alla luce (il paziente/la paziente) non era altro che un’enorme fame”.

 

Peter Sellers diceva di sé di non avere mai avuto una propria identità, Kosinski è sopravvissuto alla Shoah grazie all’assunzione di una falsa identità (dai 9 ai 14 anni è stato affetto da un mutismo di origine psichica) , il padre di Hal Hasby è morto suicida quando lui era bambino, ed ha lasciato la casa familiare all’età di 17 anni e del resto tutto il suo cinema (Harold et Maude, La Dernière corvèe,  Shampoo, En route vers la gloire, Retour) è attraversato da una melanconia bizzarra e come dal presentimento di un prossimo disincantamento del mondo. Tre artisti dalla vita travagliata:  né denaro, né amore, né riconoscimenti sociali, sembra che abbiano potuto colmare un sentimento di “vuoto al centro”, come se questo continuasse ad aspirare melanconicamente tutte le loro energie.

 

Non che si possa ribattere l’opera sui dati biografici dei suoi autori, e trarre a partire dal film delle conclusioni sui contenuti e le dinamiche della loro vita inconscia, soltanto che queste idee possono alleggerire l’enigma che sempre un’opera reca in sé e illuminare la nota di melanconia e di esilio che è molto avvertibile nel film. Così nella mia lettura, il film, auobiograficamente, è il racconto molto moderno di una lacuna delle origini, in cui l’assenza di modelli ha imposto e impone al soggetto d’inventare da sé delle genealogie, dei radicamenti possibili. Il giardino per Chance e l’avvicendarsi delle stagioni come mito di un sempre nuovo ricominciamento, sono in effetti al posto di quello che potrebbe essere un’identità e una filiazione (delle origini di Chance, della sua storia, della sua infanzia, non si riuscirà a trovare il benchè minimo indizio).

 

“Chance era orfano [...] Non aveva una famiglia”, scrive Kosinski nelle prime pagine del romanzo, questa condizione include Chance in una stirpe di personaggi dichiaratamente privi di genitori e in generale in un insieme di figure narrative dai natali incerti.Di questa generazione di personaggi separati, tagliati dalla loro origine, fanno parte il Bartleby di Melville,  il principe Myskin dell’Idiota dostoevskijano, Monsieur Hulot di Jacques Tati, Forrest Gump. Personaggi senza passato, ma al contempo personaggi che non muovono in direzione di nessun futuro. Così come Bartleby non intende lasciare l’ufficio dell’avvocato – e a nulla valgono le sollecitazioni di quest’ultimo per far desistere lo scrivano dalla sua immobilità – Chance farebbe a meno di lasciare la casa del Vecchio dove ha trascorso tutta la sua vita. Ciò che sta fuori è indifferente. Per entrambi vale quanto scrive Kosinski: «Pur non avendo mai messo piede fuori di casa e fuori del giardino, non provava nessuna curiosità per la vita di là dal muro» (un muro di mattoni nero e desolato è l’unico paesaggio disponibile per Bartleby nel suo posto di lavoro, l’unico oggetto delle sue contemplazioni).

 

Personaggi cavi, sono stati chiamati (G. Vasta), concettuali, secondo Deleuze. I personaggi cavi sono dimissionari. Separati da un’origine definibile, non hanno in nessun modo a che fare, diversamente da molte figure romantiche, con il riscatto personale e sociale. Non domandano niente, tantomeno pretendono. Sono del tutto estranei alla logica della rivendicazione. Con il suo “I would prefer not to”, Bartleby si dimette dal mondo; in “Oltre il giardino”, quando prima Thomas Franklin, il legale che alla morte del Vecchio ha il compito di amministrarne le proprietà, e poi, nella versione cinematografica, il medico di casa Rand, gli domandano quali siano le sue rivendicazioni (claim, nell’originale), Chance risponde di non avere nessuna istanza. Seguendo quanto constata Gilles Deleuze in «Bartleby o la formula», quello con cui ci confrontiamo è «non una volontà di nulla, ma l’avanzare di un nulla di volontà». Non avere istanze, preferire di no, sono forme di una particolare anoressia il cui oggetto non è soltanto il linguaggio – per quanto la natura laconica sia un tratto distintivo dei personaggi cavi – bensì il mondo nella sua interezza, potremmo definirla una sorta di anoressia esistenziale, risultato di una profonda “melanconizzazione” del legame sociale. Così sembra essere per quel “mi rendo conto”, formula più volte usata da Chance, per chiudere una sua impossibile apertura all’altro.  Uno stato di necessità tanto docile quanto drastico: sottrarsi, permanere, assottigliarsi, digiunare (penso al Kafka di «Un digiunatore») – tutto ciò non è negoziabile.La percezione di Chance non può però prescindere da Peter Sellers. La sua incarnazione cinematografica del personaggio inventato da Kosinski è fabbricata con una misura perfetta. Peter Sellers fa esistere Chance attraverso una postura impercettibilmente irrigidita (come se un carapace di carne si addensasse sulle spalle indurendo i movimenti), attraverso un’andatura meccanica indeformabile, soprattutto tramite un’espressione geometricamente inerte. Sul suo viso permane un rictus morbidissimo, quella minima increspatura labiale che nel non poter diventare un vero e proprio sorriso contribuisce a dar forma a uno sguardo che è quello dell’assenza. Sellers dona al personaggio la sua “libbra di carne”, dà una forma fisica all’immobilità melanconica di Chance, quasi seconda pelle muscolare (Ester Bick).

 

Chance esiste, parla, descrive il suo giardino: dice ciò che dice, e nient’altro. Chi lo ascolta è però certo di confrontarsi con un’immagine metaforica. Presume, cioè, che le parole di Chance trasportino significati secondi, intenzioni centrifughe. Di fatto la letteralità di Chance, nel suo risultare irricevibile e disperante, viene sempre elusa. Davanti al trauma della letteralità non c’è altro da fare che rifugiarsi nel metaforico. La storia quindi gira intorno a questo gigantesco malinteso che Sellers e il suo personaggio fanno funzionare con effetti comici sorprendenti. (Solo il letterale è comico!), perché Chance sembra realmente toccato soltanto dalle immagini filtrate del televisore. Quest’uomo che non dice né si, né no, si fa iscrivere allora in un circuito di affermazione come  “pura passività paziente”, come direbbe Blanchot, da parte di una società in pieno sconvolgimento,  che ha bisogno di conferire al vuoto del personaggio un valore messianico, che potrebbe aprire al nuovo,  al campo dei possibili, ma che in realtà nella sua debolezza, e qui il film si fa analista e pensiero del politico, serve soltanto a replicare dell’identico: nella catena istituzionale del potere, a conservare il potere, sangue fresco per Beniamin Rand, che infatti sta sopravvivendo grazie a delle trasfusioni, boccata d’aria per Eve, nuovo alimento ai suoi autoerotismi.

 

Il corteo funebre su uno sfondo invernale che chiude il film, in cui i discorsi degli squali della finanza sono montati in parallelo con il girovagare di Chance, è una metafora evidente e definitiva. Incarnazione di un’utopia evanescente e spettrale, la silhouette magica di Peter Sellers fluttua sull’acqua e finisce per perdersi all’orizzonte. Chance finalmente libero dal corpo che l’intrappolava, sembra perseguire un’utopia mistica, che le Gnossiennes di Satie con la loro bella e avvolgente malinconia sostengono e accompagnano,  o anche illustrare la fatalità psicotica di una parola che è la cosa, ma senza consapevolezza alcuna del suo progetto e della sua impossibilità. Così plana sull’acqua come all’inseguimento di un’autenticità originaria e allo spettatore spetta il sorriso o di comprensione o di scherno.

 

Forse però questo punto d’utopia è necessario, forse si tratta anche di una sfida. Agli albori dell’attuale fortissima crisi del moderno, contro un destino di pietrificazione dell’immaginario speculare che oggi è ormai ridotto a una lugubre e pericolosa ossessione identitaria, quando sembrano non essere più dotati di memoria e di figurazione i fili narrativi e storici che fanno di noi dei passeggeri dell’esistenza, questo film resiste, mostrando ancora oggi il suo forte ancoraggio al mondo contemporaneo.

 

 

29/05/2015

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