Madre. Commento di A. Gentile

 

Madre. Regia di  Bong Joon-ho (2009)

Commento di Aurora Gentile

 

Si potrebbe intitolare anche Della passione questo film di Bong Joon-ho del 2009, che soltanto da poco è arrivato sugli schermi italiani.

In una nota di presentazione al film il regista spiega: “Volevo fare un film che scavasse in profondità in ciò che è ardente e potente, come il cuore di una palla di fuoco. (La mère aux trousses, Liberation, 2010).

Il film si apre con la visione di una donna sulla cinquantina, vestita decorosamente, che erra in una prateria. L'aria è chiara, con una traccia di foschia in lontananza. Si può sentire il canto degli uccelli e il suono di una chitarra. All’improvviso la donna comincia a danzare. Una danza esotica e bizzarra. Come in un piccolo preludio a ciò che sta per accadere, il  suo viso a un tratto si contrae e la sua mano si copre la bocca in un classico gesto di orrore e dolore.

È un sogno? O annuncia che qualcosa sta realmente accadendo? Queste domande senza risposta fanno parte del mistero del film, portandolo al di là del normale thriller.

Bong-Joon-ho ha dichiarato che ha concepito il film pensando alla sessantottenne attrice Kim-Hye-ja, per capitalizzare deliberatamente i suoi decenni di lavoro nei film e in televisione coreani, in cui interpretava quasi sempre una madre protettrice e responsabile. Qui Bong-Joon-ho proponendola in tutt’altro ruolo di madre, innesta dunque un contrasto che è ancora più disorientante. “Nel mio paese, quando una donna ha un figlio, abbandona immediatamente qualsiasi progetto, desiderio personale per dedicarsi esclusivamente al suo ruolo di madre", dice il regista. “Conosco Kim Hye-ja da quando ero bambino. L'ho vista in televisione interpretare la madre virtuosa e già allora ho pensato che doveva contenere in sé una follia che non le era permesso esprimere. Quando finalmente la incontrai nel 2004, fu subito entusiasta della mia idea. È stata una figura angelica nella società coreana, un'icona consensuale, e nel mio film volevo che le venisse schizzato del sangue in faccia. Il pubblico coreano è davvero scioccato nel vederla in un ruolo del genere"(ivi).

La storia

Una vedova che gestisce un'erboristeria in una piccola città di provincia, sta crescendo suo figlio ventisettenne, Do-Joon, bello e stranamente infantile. Smemorato, palesemente ingenuo, sembra avere dei problemi psichici (quando cerca di pensare si stringe penosamente le tempie con le mani), e comunque tutti nel villaggio lo chiamano “ritardato” facendolo infuriare. Una sera, il figlio non torna a casa, è andato in un bar per incontrare un amico che non viene e soprattutto cercare una ragazza che gli piace per fare all’amore con lei, ma anche questa non c’è. Avvilito non sa che fare, appare titubante, e così decide di tornare a casa, vinto ed esasperato, quando intravede tra le stradine del villaggio, una studentessa in uniforme blu e bianca. Lei entra in un tugurio fatiscente, lui lancia una pietra contro la porta d'ingresso spalancata, la pietra gli viene rilanciata. Fine. Il giorno dopo, l'adolescente viene trovata morta, il suo corpo drappeggiato sul parapetto di un edificio abbandonato, non nascosto ma esposto in bella mostra, come per allarmare e accusare la distesa di case fatiscenti che si estende lungo la collina. I sospetti cadono presto su Do-Joon, che viene messo in prigione, dopo una confessione più o meno estorta. Da quel momento la madre cerca in tutti i modi di scagionarlo. Certo, condividiamo il dolore e la lotta della madre, che sono legittimi. Ma il fatto è che lei ama suo figlio in modo speciale. Veglia sulla sua sessualità, lo imbocca, lo guarda urinare, insomma, lo accudisce come se fosse ancora un neonato, anche se a volte sembra essere questa la sua età mentale. Ed è pronta a fare qualsiasi cosa per riabilitare il nome di suo figlio: infrangere le regole della polizia o della giustizia, spiare gli altri, cedere alla violenza, arrivare fino all'omicidio. Questo cala la relazione tra madre e figlio - amore folle, amore spietato - in un’atmosfera criminale, che non si smentirà lungo tutto il film.  Non ci sono figure maschili che possano interrompere questo pericoloso testa a testa, la madre onnipotente vive sola col figlio che probabilmente colma tutte le sue aspettative di una volta, lui è lì al posto del marito che ha perso, forse del padre, che è assente anche lui. Il regista dunque ci pone di fronte a questa passione, alla passione della madre. Per di più, qui si tratta di una madre di un figlio problematico, che non è mai cresciuto. Tutti sappiamo che in queste situazioni sono le madri ad essere in prima linea, che se ne fanno carico e “reggono”. Anche se abbattuta una madre di un figlio in “deficit” o “diverso”, resta una combattente. Al limite, si preoccupa di ciò che accadrà “dopo la sua morte”, ma finché è viva, la madre resta per garantire la vita, nel modo migliore possibile e quali che siano i suoi limiti. La madre del film di Bong-Joon-ho è però una madre che ha perso il senso della misura, il cui amore smisurato finisce per coincidere con una distruttività ugualmente smisurata a meno che non si tratti delle due facce di una stessa medaglia. Penso che il regista voglia dirci proprio questo, che l’amore di questa madre cela al suo cuore un amore che è diventato un bisogno, tra i due non c’è una relazione amorosa, ma passionale, sotto il segno di Thanatos (Aulagnier, 1977-1978). È la violenza passionale dell’esperienza materna, che l’espressione proposta da Winnicott di “madre sufficientemente buona”, corre il rischio di offuscare, mentre il mondo fantasmatico kleiniano sembra più in misura di accogliere, vale a dire tutto quello che si riattacca all’arcaico del pensiero, del fantasma, del vissuto: è la madre pre-edipica e della violenza dell’inconscio. Perché in questo film, la scissione, il diniego, l’onnipotenza, sono tutti presenti. In nessun altro film forse e proprio perché sceglie il materno come tema, pulsioni di vita e pulsioni di morte, e il loro impasto e disimpasto è più rappresentato, nel modo in cui amore e odio si contendono il campo, incarnati in un corpo minuto di madre (qui particolarmente consonante con l’ambiente non umano sia perché la storia è ambientata sul fiume Han, che taglia la capitale coreana in due, sia per la vastità desertica dei campi d’erba gialla, che sembrano essere in intima affinità con la donna), una donna fragile, ma feroce nel difendere il figlio, dal quale si capisce non si è mai separata.

Quando a Parigi è stato chiesto a Bong Joon-ho se fosse un lettore di Freud, ha risposto di essersene interessato al liceo, poi ha aggiunto: "Non credo che Mother si basi su schemi freudiani, anche se qui tutto nasce da un'immensa frustrazione sessuale che porta i personaggi a un'isteria collettiva. È soprattutto la madre in menopausa, infatti, che è stata affamata di sesso per anni e che cerca di controllare la scombussolata energia sessuale del figlio come compensazione. Suo figlio prende il posto di figlio, marito e amante per lei".

Il legame materno può essere mostruoso? Sì, può esserlo, secondo Bong-Joon, nel senso che a volte si oppone al legame sociale, si sostituisce all'ordine morale, insomma si sottrae alla civiltà in favore di un isolamento che può far impazzire. Così questa donna non è un modello, non ha nulla di notevole, è solo follemente innamorata di suo figlio, forse per questo le risonanze chiaramente incestuose del loro rapporto sono trattate con leggerezza, a volte con umorismo.

Ma la passione della madre suscita scandalo e la maggior parte dei critici cinematografici, in Europa e negli Stati uniti, pur valorizzandolo il film come un capolavoro, hanno messo particolarmente in luce la crudeltà del personaggio, “una madre che intrappola”, “una madre belva”, che fa paura, “meglio non fare arrabbiare questa mamma”, sono i titoli delle recensioni dove si costeggiano misoginia e ambivalenza. È il “continente nero”.

Questa passione tuttavia meriterebbe anche la nostra pietà perché è intrecciata terribilmente al dolore, in Madre s’intravede in filigrana la Mater dolorosa.

Perché Bong-Joon ci dice anche, in un corto dialogo tra madre e figlio, che questa quand’era piccolo ha cercato di avvelenarlo e togliersi la vita, senza poi avere il coraggio di portare fono in fondo l’intento, forse un gesto nato dalla disperazione di sapere che sarebbe stato per sempre un figlio incapace di badare a se stesso. Il figlio lo rinfaccia alla madre, anche se in modo confuso, ma è un’accusa lancinante per la madre. C’è da pensare allora che nell’universo materno ci sia anche il “fantasma del bambino morto”, figura emblematica di un lutto interminabile, il peggiore dei lutti, quello del possibile, sul quale il tempo non imprime i suoi segni né il suo movimento.

Dopo Freud, e dopo Melanie Klein, i lavori di André Green hanno approfondito l’analisi della “follia materna”, e numerosi altri psicoanalisti, Ilse Barande, Florence Guignard, Jacqueline Schaeffer, Janine Chasseguet-Smirgel, hanno sottolineato come la cultura moderna, i media in particolare, enfatizzino la gravidanza e gli aiuti alla procreazione ottimale, per evitare d’interrogarsi sulla passione materna, l’unica non virtuale e manipolabile dallo spettacolo, pur essendo il prototipo del legame d’amore. Come scrive Julia Kristeva, la maternità non è un istinto, non si riduce al “desiderio di bambino”, perché” l’onnipotenza narcisistica del diniego psicotico può ridurre il bambino a “un cattivo oggetto” o a un oggetto parziale da evacuare o feticizzare come il caso della storia che Bong ci racconta. La maternità è una riconquista che attraversa la passione materna con un lavoro di perlarborazione e sublimazione continua delle pulsioni di vita e di morte, un lavoro che dura tutta la vita.

 

Bibliografia

Aulagnier P. (1977-1978), I destini del piacere, 2002, La Biblioteca Roma-Bari

15/11/2021

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