L'Enfant - Una storia d'amore. Commento di M. Buongiovanni e M. Donadio (21-12-2015)

l'enfant. Una storia d'amore. Commento di M. Buongiovanni e M. Donadio - 21/12/2015


L’enfant. Una storia d’amore

Commento di Maria Buongiovanni e Mario Donadio

I fratelli Jeanne Pierre e Luc Dardenne, registi del film l’enfant (2005), hanno esordito come documentaristi, formazione che si ritrova nei loro film e l’idea de l’enfant, come gli stessi autori raccontano nel corso di un’intervista a Cannes nel 2005, nasce da una scena reale osservata sul set di un altro loro film durante il quale lo sguardo dei registi venne catturato da una ragazza di circa sedici anni che spingeva una carrozzina in maniera cosi violenta che quasi si stentava a credere potesse contenere un bambino. Il modo in cui lei, così freneticamente e nervosamente, agitava quella carrozzina, faceva pensare che volesse liberarsi del bambino.

Dopo un anno, gli autori decidono di fare un film partendo dal ricordo della violenza di quella scena. Pensano di trovare un padre a quel bambino nella carrozzina ed un compagno alla giovane madre; la caratteristica dei film dei Dardenne è infatti proprio quella di presentare situazioni di vita spesso al limite dell’umana  sopportazione e creare un clima di condivisione e solidarietà con i loro personaggi, sempre alle prese con una difficile condizione di vita.

Si tratta di un film in cui si parla molto poco, ma non c’è affatto silenzio. Ne l’enfant ci sono i rumori della periferia della città, la continua presenza delle macchine, mentre sono rare  le presenze umane. Sebbene ci sia un fiume, non si può dire che ci sia realmente un paesaggio. Ciò che viene narrato attraverso un essenziale, ma pregnante linguaggio cinematografico ci coinvolge rendendoci partecipi della loro narrazione. La macchina da presa insiste sugli attori molto da vicino, spesso di profilo, raramente di faccia. Le riprese concentrate sui volti, sugli sguardi mancati e la forza espressiva di alcune scene, riescono a catalizzare  il nostro interesse verso il movimento interiore dei personaggi che spinti da una tensione interna, cercano una soluzione concreta alla loro sofferenza. La fisicità degli ambienti e degli attori è importante.

Un’area esplorata ne l’enfant e presente anche in un altro film dei Dardenne, dal titolo simile “le Fils”[i][1] è il tema diretto e indiretto dell’ambivalenza omicida nel rapporto tra padre e figlio.

La versione italiana viene presentata con un sottotitolo: una storia d’amore mentre in inglese il titolo diventa “The Child”, un termine che sta a significare sia il proprio figlio che il figlio di … e che più direttamente rimanda ad una relazione non paritaria, ma che si caratterizza per la differenza di età, di esperienza e di coscienza.

L’enfant, racconta la storia di Sonia e Bruno, interpretati rispettivamente da Déborah François e Jérémie Renier, due ragazzi giovanissimi che mettono al mondo un bambino, Jimmy.

Il film comincia con le immagini di Sonia che tornando a casa dopo aver partorito, scopre che durante l’assenza, la sua casa è stata affittata da Bruno ad una coppia di amici; lo va a cercare e lo trova in strada che sta sorvegliando un supermercato in attesa di qualcosa. I due si salutano, ma quando Sonia gli mostra il bambino, Bruno sembra essere con la testa da un'altra parte e non riesce quasi a guardarlo. Lei sembra da subito consapevole della necessità di un riassetto della coppia che possa includere i bisogni del bambino, ma Bruno la deluderà continuamente.

Bruno vive in una dimensione autarchica, ossessionato dall’idea di procurarsi denaro facilmente attraverso attività illegali. Le cose di cui si appropria devono subito essere rivendute quasi a volersi liberare di tutto ciò che possa parlare di legami, di affetto, di cura. Emblematica è la scena che lo ritrae mentre nel trafugare un bottino, tiene per sé soldi e gioielli e strappa e butta via un testamento ritrovato e la scatola stessa che lo contiene, oggetti che sembrano “bruciare nelle mani” e se ne disfa lanciandoli nel fiume.

Bruno vive ai margini di una cittadina belga: Seraing. La scelta degli autori non è a caso, infatti Seraing era la città del ferro, dove ancora oggi si possono vedere i capannoni abbandonati e le ciminiere delle fabbriche chiuse. Nel film, la società e la città viva sono lontane e sfuggono nelle riprese mentre gli spazi vuoti, abbandonati, morti sono presenti. Lo scenario freddo rimanda ad un senso di disagio e di precarietà individuale e sociale, come la dimora sul fiume dove Bruno conserva i suoi vestiti. Ritirato in questa dimensione solitaria non ha amici, solo due giovanissimi complici dei suoi reati, malgrado ciò esprime quella forza e quel desiderio di vita che, a discapito delle condizioni esterne, un ragazzo di vent’anni può portare in sé.

Sebbene la sua inquietudine lo renda “amorale”, Bruno non appare mai apertamente violento; è semplicemente intenzionato a procurarsi denaro senza lavorare, “non mi va di lavorare, è roba da coglioni!” cercando a modo suo una scappatoia all’ immobilità sociale e alla mancanza di occasioni, sfidando un mondo adulto ed una società che sente molto distante da sé. In questo modo Bruno non appare mai vittima di un destino avverso anzi cerca di vincerlo esprimendo, in quello che fa, una grande carica vitale. Cerca concretamente di occuparsi del bambino come padre, si preoccupa di comprare una carrozzina e di fittare una  cabriolet, con il denaro di una refurtiva, per portare la sua “famiglia” in giro. Quando arrivano al parco però, sono Sonia e Bruno i due bambini che giocano a rincorrersi e a ritrovarsi dopo la separazione del parto, mentre Jimmy viene lasciato in macchina.

Bruno promette a Sonia di riconoscere il bambino il giorno dopo, ma durante la notte, si allontana da loro per vendere altri oggetti rubati e in questo ambiente viene a conoscenza di un mercato nero di adozioni. Questo pensiero viene registrato in funzione di quanto si potrebbe guadagnare vendendo Jimmy.

Malgrado la negatività delle sue azioni, il suo atteggiamento è contraddittorio svelando sussulti di umanità laddove sembrano quasi incongrui. La sua ambiguità è forte, ma l’imprevisto lo mette in crisi e lo tocca in modo così profondo che ci fa partecipare al barcollare delle sue difese e al riemergere dei suoi bisogni infantili di genitorialità.

Ci sono due scene del l’enfant che colpiscono particolarmente, in quanto condensano temi e significati essenziali del film. Nella prima il protagonista deve riconoscere il figlio appena nato, ma si allontana (su richiesta della compagna) per una passeggiata col neonato di nove giorni[2] che si rivela invece l’occasione per realizzare, come vedremo, il progetto di venderlo. Quest’abbandono crudele fa pensare alla storia di Edipo, al padre che non può accettare la nascita del figlio, vissuto come una minaccia mortale. Al tempo stesso il rifiuto di Jimmy da parte di Bruno è un attacco al futuro, forse per restare nella dimensione senza tempo che è propria della sua vita.

L’altra scena d’intensità straordinaria, forse l’acme del film, è quella del fiume, dove Bruno e il ragazzino suo complice, cercano scampo per nascondersi e sfuggire alla polizia, dopo uno scippo malriuscito. L’acqua è troppo fredda per le forze del ragazzino che piange come un bambino piccolo e, preso dal panico, sta per affogare. Ad un certo punto il rischio è che entrambi affoghino perché il complice si aggrappa al più grande disperatamente. Anche in questa scena si ripete la tensione tra la vita e la morte, con la presenza iniziale di elementi riparativi che si manifestano nelle cure che Bruno prodiga al ragazzino sull’orlo di un collasso per il freddo e la paura. Questi movimenti libidici prendono più corpo quando Bruno si recherà alla polizia per scagionare il complice arrestato restituendo la somma rubata e assumendosi la responsabilità: “Sono io il capo…”.

La fine del film con l’incontro in prigione tra Bruno e la ragazza e il pianto reciproco esprime una situazione di presa di coscienza di ciò che è avvenuto e dei danni provocati. Anche se molti critici hanno detto che c’è del miracoloso in questo cambiamento, repentino fino ad un certo punto.

Una prima conclusione di quanto scritto potrebbe organizzarsi intorno alle caratteristiche della “paternità”, una funzione certamente più costruita rispetto alla maternità. Semplificando, essa implica un superamento dell’Edipo, l’accettazione della differenza tra le generazioni e un’attitudine riparativa rispetto al conflitto tra la vita e la morte che percorre la situazione edipica.

Tuttavia la presenza e la funzione materna si rivela in questo caso decisiva perché si possa organizzare un sentimento di paternità. Talvolta siamo abituati a sottolineare la funzione del padre sia per sostenere la “preoccupazione materna primaria” sia per permettere il distacco del figlio dall’orbita materna. In questo caso assistiamo al reciproco di questa dinamica. È la fermezza della madre a indurre in Bruno la comprensione e la verbalizzazione del suo bisogno di lei e la consapevolezza che l’attacco distruttivo al figlio è stato al tempo stesso un attacco a lei, Sonia, che ha un vero collasso e deve essere ricoverata in ospedale. Bruno realizza che Sonia, l’oggetto amato non può essere scisso da Jimmy, ormai essenziale nel mantenimento di un legame affettivo tra di loro, forse  una situazione triadica, un germe di famiglia.









[1] Commentato da Claudia Altieri in Lo schermo che incanta, Richard e Piggle 3/2014.




[2] In questo passaggio possiamo, forse, riconoscere una sorta di collusione inconscia tra madre e padre, nel desiderio di disfarsi del bambino.

21/12/2015

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