Hungry Hearth. Commento di G. D'Amato - 28/09/2015

Hungry Hearth

 

Commento di G. D'Amato - 28/09/2015


Il bambino indaco (titolo del libro di Marco Franzosi da cui è tratto il film di Saverio Costanzo, (coppa Volpi al festival di Venezia 2014) è “un bambino speciale del terzo millennio: possiede speciali attributi psicologico-spirituali e ha un istinto comportamentale rivoluzionario rispetto ai bambini cui siamo abituati fino a questo periodo evolutivo della società.” Questa è la spiegazione che la madre dà estaticamente al padre sbigottito e confuso, dopo essere stata da una delle tante santone new-age che guardano alla vita in modo diverso.

Il film non dà  molto peso al significato di questa misteriosa definizione e sposta l’accento della storia sul dramma della relazione tra io e altro, in altri termini sulla ferocia e meraviglia del rapporto tra madre e bambino, con la sua quota inevitabile di narcisismo.

Intanto inizia con una scena del tutto estranea al romanzo, ma talmente caratterizzata e caratterizzante che ci porta subito nella geografia psichica della storia.

Mina e Jude si conoscono nella toilette bloccata di un bagno per maschi, dove lei è entrata per errore, in un ristorante cinese, ed entrambi rimangono in questa dimensione claustrofobica, satura di fetori, imbarazzi e forse anche qualche spunto paranoico, fino a quando un piccolo cinese impassibile e privo di  ironia, con il quale  la comunicazione è stata molto difficile, quasi impossibile (a causa della confusione delle lingue, è il caso di dire), viene a liberarli..  Siamo fin dall’inizio nello spazio anale, quasi fisicamente, il claustrum di cui parla Meltzer. Ed è in questa atmosfera proibita e segreta, quanto carica di seduzione, che nasce una storia d’amore segnata da una onnipotenza  travalicante l’innamoramento per farsi (o svelarsi) perversione.

Sappiamo poco dei due. Lui ha una madre che sembra volere tenere a distanza, lei non ha nessuno. Jude lo dirà alla madre quando questa proverà per la prima volta a intervenire nel dramma che rapidamente prende proporzioni sempre più allarmanti: “Lei ha solo noi” e, forse,   possiamo pensare che anche questo sia stato un ingrediente importante del suo innamoramento. Più rivedo il film, più ho l’ impressione di assistere all’incontro tra due bambini smarriti e soli. Nel romanzo  sappiamo che i genitori  non esistono se non formalmente nella vita di Mina, infatti  si limitano a farsi vivi  mandando un regalo per le nozze.  Nel film invece, alla neosuocera che cerca di saper qualcosa di lei, racconta di aver perso la madre da piccola, mentre  del  padre dice solo che  “ è anziano,  e poi non abbiamo  niente da dirci “. In ogni caso sappiamo che Mina è sola ; nella fragilità della sua figuretta scarna e intensa, abituata e fiera di fare da sé, fino a diventare la custode di una verità assoluta e primaria, riconosciamo il dramma dell’anoressia, o se vogliamo dirla in altri termini, della “fame d’amore”.

“L’uomo ha sempre cercato di travalicare gli stretti limiti della sua condizione..io considero la perversione come uno dei modi essenziali che egli utilizza allo scopo di spostare in avanti le frontiere del possibile e di impedire che la realtà venga fissata una volta per tutte”. Questo è l’ incipit di “Creatività e Perversione” (Chasseguet-Smirgel), e la tesi dell’autrice è che “la perversione sia una tentazione della mente comune a tutti”.

Certamente chi ha a che fare con l’anoressia e altre forme di dipendenza conosce il disperato tentativo di controllo che muove queste persone, decise ad affermare la propria realtà che non ha bisogno di quella degli altri, ma la nega con ferrea determinazione.

Il romanzo invece comincia  con un “incontro al buio”, esperimento al quale sono nuovi entrambi i protagonisti ed entrambi un po’ scettici. Ma l’incontro  diventa subito colpo di fulmine tra il ragazzo timido che non riesce a trovare una ragazza nonostante gli amici e la fanciulla anoressica, dolcemente spavalda e per nulla spaventata, sembra, che chiede dal menu a uno sconcertato cameriere semplicemente un’insalata, affermando “sono vegetariana”. Così mentre il romanzo si apre subito ad un’atmosfera di innocenza e specialità, dove la traccia della perversione rimane appena accennata, sullo sfondo, il film invece ci proietta immediatamente in un’atmosfera al contrario angosciosamente chiusa e maleodorante,  come dicevamo prima,  anale.

Ci sono molti elementi di grande attualità in questa storia. Il ristorante cinese, un mondo dove è difficile comunicare anche per la babele di lingue, le nuove patologie, la patologia del vuoto, direbbe qualcuno, una genitorialità giovane e spaventata, a cui non fanno da spalla esperienze precedenti, come se nessuno avesse una memoria a cui attingere. Perfino la madre di Jude, l’unica nonna, che pure sarà determinante nell’evoluzione della vicenda, quando conosce la nuora appare quasi più fragile di lei e non trova altro da dirle che è felice perche “è   laprima volta che Jude la coinvolge nella sua vita”, ma, aggiunge anche,  non ricorda più molto delle gravidanze umane, benché crede che siano in fondo come quelle dei cani (fa la veterinaria? Mi sono chiesta)

Sono molto colpita dall’assenza di adulti responsabili in questa vicenda, e non mi riferisco ai due protagonisti,  ma all’assenza di una rete di protezione intorno a questa giovane famiglia così carica di dinamiche antiche e dolorose che nessuno coglie. “Loro possono vedere, ma non capire quello che vedono” dice Mina a un certo punto, e crede di parlare dell’impurità del mondo esterno che non vuole che contagi il suo bambino, ma forse sta parlando di altre necessità mancate, di altre assenze di spinte vitali. Del resto non sono infrequenti i casi di infanticidio da diversi anni a questa parte, storie affatto incredibili,  ma sconvolgenti perché  mettono a repentaglio di colpo secoli di indiscussa retorica sull’amore materno, come nella favola in cui tra la folla plaudente ai vestiti del re  viene fuori il bambino a gridare che il re, semplicemente, è nudo.

Mina è convinta di possedere il segreto della salvezza per sé e il suo bambino da un mondo inquinato da veleni alimentari  e quando la curatrice di aura le predice la nascita di un bambino speciale , si sente ancora più sicura delle sue sensazioni che quasi la investono di messianicità.

La vediamo preparare coi suoi gesti delicati il cibo per la sua famiglia:  fette di cetrioli, cubetti di avocado, pomodori interi e insalata. Ecco il cibo perfetto per una madre,  poi lo sarà anche per il bambino, malgrado il suo pallore , la crescita che si arresta, lo sguardo stanco, le manine diafane. E’ evidente che , nonostante l’amorevolezza sfinente con cui Mina si rivolge al suo bambino, di cui non sapremo nemmeno il nome come se non esistesse, il suo passare ore con lui distesa su un tappeto, teneramente carezzandolo e sussurrandogli dolcezze, ella è assolutamente refrattaria ai reali bisogni di quella piccola persona che è lì, fuori di lei, e non è lei. Forse per questo non ha nome. In tutto il film non vedremo mai un sorriso di questo bambino senza nome, solo i suoi grandi occhi scuri in cui sembra di leggere una  domanda inespressa e dolorosa, oltre alla solita fame d’amore. Cosa vede di sé questo bambino negli occhi di sua madre? Probabilmente niente che appartenga a lui, nessuno specchio, solo lei.

Recalcati  dice che “quando lo statuto del bambino-oggetto emerge come un’identificazione totalizzante del bambino all’oggetto del godimento dell’altro, è un effetto del non funzionamento della metafora paterna. … la cui funzione strutturante agisce non solo sulla spinta perversa del bambino a fondersi nel corpo materno, ma anche sulla tendenza incestuosa della madre a incorporare a sé il proprio figlio”.

Jude, il giovane padre, è evidentemente spaventato da questa rapida esclusione che sente nella coppia con Mina, nonostante i continui richiami di lei a “noi tre”, ma in qualche modo è anche affascinato dalla lusinga di un eden segreto solo per loro. Forse è per questo che i suoi goffi tentativi di aiuto non risolvono e non trovano un ascolto efficace.

Non è solo la evidente anoressia della madre che mi ha portato a pensare alle patologie del nostro tempo e a cogliere un nesso tra queste e i tanti infanticidi che oggi “sempre inspiegabilmente” per la cronaca , si commettono: quanto l’attivazione di quel nucleo perverso che è in ciascuno di noi, come dice la Chasseguet.Smirgel, e  che il narcisismo dilagante incoraggia, con la regressione a un universo sadico anale  dove tutto è possibile, le differenze abolite,  dove esiste la confusione tra sessi e generazioni, tra lingue e comunicazioni, tra bisogni reali e immaginari.  Possiamo dire tra principio di piacere e  principio di realtà?

Mi torna in mente un romanzo di Toni Morrison,scrittrice afroamericana, premio nobel per la letteratura nel 1993.  “Amatissima” narra la vicenda di una donna di colore che sta per raggiungere lo stato libero, e per non far cadere in schiavitù la piccolissima figlia, anche questa senza nome, (viene chiamata semplicemente “gattona già”), la uccide sotto gli occhi dell’uomo bianco che è venuto a prenderla.

Si può pensare che schiavitù e maternità possono essere due istituzione opposte, ma contigue, perché entrambe attraversate dall’idea di possesso. Sulla lapide della bimba, una volta uscita di prigione, la madre inciderà una sola parola, “Beloved”, cioè amatissima: non le bastavano i soldi per scrivere “La mia amatissima”, ma forse aveva imparato che mai più avrebbe potuto dire “mio” di nessun essere umano. Nel romanzo la bambina fantasma torna a portare scompiglio nella casa dove la madre e la nonna vivono, in una protesta senza fine contro questo abuso che è stato fatto della sua esistenza anche se allo scopo di impedirne un altro, e alla fine tornerà magicamente a rifarsi viva per continuare a punire la madre e a tormentarla per quello che le ha tolto  dopo averglielo dato.

Perché,  ancora Recalcati, “Dare la vita, generare, può esprimere una potenza talmente assoluta che può generare il suo contrario, uccidere, distruggere“.

E’ quanto fanno le anoressiche con se stesse, le depressioni post partum, le dipendenze, le madri che uccidono.  Sono persone che possono essere molto seducenti, soprattutto con chi, come loro, ha un’inespressa fame d’amore, e forse anche a questo possiamo attribuire la difficoltà che incontra il padre a entrare nel vivo della situazione.

Anche la scenografia è molto abile nel mostrare i cambiamenti, al limite del mostruoso, grazie alla sapienza delle inquadrature prese dall’alto, tra la delicatezza angelica dei primi piani della protagonista, e la deformazione dei tratti al limite della stregoneria verso la fine dello svolgimento del dramma.

Nel romanzo di Toni Morrison sarà la saggezza delle vecchie donne africane a riportare l’ordine e la vita, perché, “qualsiasi cosa quella madre avesse fatto, a loro non andava giù che gli errori del passato si impadronissero del presente. Il suo crimine era stato sconvolgente, però il peccato non poteva trasferirsi in casa sfrenato e insolubile.  Il passato era qualcosa da lasciarsi alle spalle”

Anche nel film sarà una vecchia donna  a prendere in mano la situazione, la  nonna, e lo farà in maniera sconvolgente, ma che ancora una volta mi fa pensare alla ineluttabilità di certe situazioni o momenti storici in cui le cose si fanno così terribili. Perché se la mamma di Beloved lottava contro la schiavitù, qui c’è un’assenza di sociale altrettanto ineluttabile. Dove è la comprensione, l’ascolto, la capacità di distinguere tra sé e altro, tra ideologia e realtà, in queste persone che pure a un certo punto vengono messe al corrente della situazione?  Sono medici, assistenti sociali, avvocati, eppure quella che dovrebbe essere una rete di protezione mostra falle da tutte le parti.

Nel romanzo il maresciallo è l’unica persona che sembra riconoscerlo, quando non c’è più nulla da fare, e si sentono accenti di rimorso nella sua affermazione intorno alla prevedibilità della faccenda.

“Avevamo tutti gli elementi per prevenire questa tragedia. Ma abbiamo sottovalutato”.

Nel film invece  la madre di lui, l’anziana madre,  dirà: “Non so se sto perdonando me stessa, ma ho fatto quello che pensavo andasse fatto” .

Quello che ha fatto sarà stato  uccidere Mina,  a cui con assoluta incompetenza e leggerezza  il bambino era stato affidato dai servizi, sottraendolo al padre.

Ultima notazione: la canzone del film, che accompagna l’incontro tra i due giovani e alla fine del film, il passeggiare del padre col bambino sulla spiaggia, dove prima lo avevamo visto passeggiare, senza gioia, con la madre.

Tu si’ na cosa grande pe’ me, na cosa ca tu stessa non sai…

E’ una canzone struggente, come lo sono le lacrime negli occhi di Mina quando ascolta Jude cantarla per lei, e io mi chiedo perché questa canzone, proprio questa per le persone affamate d’amore? Forse Mina (forse anche Jude) pensa di aver trovato finalmente il giardino segreto, il “conosciuto non pensato”, prima di cadere nella trappola di non potersi separare mai più, una volta trovatolo, ma solo chiudersi dentro, nella preziosità dell’impossibile: “Là fuori c’è una nube rumorosa tossica e  puzzolente” dirà al padre che vuole portare il bambino a prendere un po’ d’aria. E, ai suoi tentativi di intervistare un pediatra, o di farlo mangiare di nascosto: “Devi fidarti di me che sono sua madre: io sento che è giusto crescerlo così”.

Ecco, la canzone mi sembra un po’ la canzone del giardino segreto, e di nuovo penso alla vecchia donna africana che alla fine del romanzo della Morrison dice alla ragazza giovane che vuole salvarsi, quando finalmente hanno abolito la schiavitù, ma  ha paura di lasciare la vecchia casa piena di fantasmi:

“Non c’è niente su cui poter contare in un mondo dove se uno è una soluzione, è anche un problema”

“E allora che posso fare?”

“Tienilo a mente ed esci dal giardino. Vai!”

28/09/2015

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