Gente comune. Commento di Roberta Bernetti 07-06-2012

Gente comune

 

Commento di Roberta Bernetti


 

Gente comune (“Ordinary People”) Regia di Robert Redford, 1980.

Il film, drammatico e molto intenso, descrive alcuni mesi di vita della famiglia Jarrett, che vive in una villa nell’Illinois. La famiglia è composta dalla madre, dal padre e dall’adolescente Conrad, che è il protagonista del film. Il regista si concentra soprattutto sugli aspetti psicologici ed emotivi dopo la morte tragica del figlio primogenito Back, avvenuta in seguito ad una tempesta mentre i due fratelli erano in barca a vela sul lago. I Jarrett si trovano ad affrontare un doppio trauma: quello della perdita di Buck, ma anche quello legato al successivo tentativo di suicidio da parte di Conrad, dilaniato dal dolore e dai sensi di colpa verso il fratello, al quale era legatissimo. Conrad viene ricoverato in un ospedale psichiatrico per 4 mesi. Il film ha inizio quando Conrad è già tornato a casa e riprende ad andare a scuola; il ragazzo è depresso e confuso, bloccato nelle relazioni con gli altri e tende ad isolarsi. Se di giorno si sforza di tenere le emozioni sotto controllo, di notte sopraggiungono gli incubi legati alla perdita drammatica del fratello. I genitori di Conrad sono entrambi persone piuttosto rigide che hanno reagito al lutto cercando quasi di congelare le emozioni, tenendo lontano il dolore ed evitando ogni conflittualità, come a tentare di andare avanti un po’ come se niente fosse successo. Circola in casa un pesante senso di solitudine, di vuoto, che aumenta a causa della difficoltà di ognuno ad entrare in contatto con gli altri. La signora Jarrett si presenta come una donna formale, fredda, con tratti narcisistici, in costante fuga dal dolore e incapace di raggiungere emotivamente sia il figlio che il marito. La morte di Buck, verso il quale aveva una predilezione, sembra aver portato via con sé tutta la sua vitalità così come, probabilmente, le sue capacità empatiche e materne. Il padre si interessa a Conrad, cerca di stargli vicino come può, preoccupato per la sua salute, ma è anche spaventato e confuso. È comunque il padre che lo invita a contattare l’analista indicato dallo psichiatra che lo ha seguito durante il ricovero. Conrad contatta così il dott. Berger e accetta di intraprendere una psicoterapia bisettimanale con lui. Si tratta di un’analista un po’ sui generis, sanguigno, appassionato, molto diretto, che riesce presto a contattare il dolore di Conrad. Nel film lo spettatore segue nella stanza di analisi il paziente con le sue resistenze iniziali, il suo desiderio di stare meglio ma anche il suo terrore del cambiamento nell’evolversi del processo di transfert. Conrad si apre molto con il dott. Berger, gradualmente diventa più consapevole dei rapporti con i sui genitori, della lontananza emotiva della madre e della sua svalutazione nei suoi confronti; comincia comunque ad accettarne i suoi limiti. Il ragazzo comincia a lasciarsi andare di più permettendosi anche di esprimere la rabbia. È un po’ meno spaventato da se stesso anche se ancora si sente a disagio nelle relazioni con i coetanei, così come con una delicata ragazza che frequenta. La crescente consapevolezza di Conrad, acquisita con il lavoro terapeutico, gli consente anche di prendere decisioni autonomamente e di fare chiarezza sui suoi bisogni. Un momento di viraggio nel film è il colloquio che il signor Jarrett ha richiesto con il dott. Berger, in cui ha la possibilità di riflettere sul suo rapporto con la moglie, mai messo in discussione. Dopo la morte del figlio, sente di avere avuto un ruolo di dipendenza passiva da lei, che lo allontana però sempre di più da se stesso e dal suo dolore, che ora è più disponibile a voler contattare. Il suicidio inaspettato di un’amica di Conrad suscita in lui un’enorme angoscia che lo spinge di notte a cercare il suo analista che lo accoglie nel suo studio: si assiste ad un dialogo drammatico in cui Conrad tende a sentirsi in colpa per non aver potuto evitare la morte dell’amica, così come quella del fratello. L’analista lo accompagna e lo sostiene nel riconoscimento di un atroce dolore per la perdita di Buck ma anche di una rabbia indicibile verso Buck stesso che lo ha coinvolto in un’impresa tanto rischiosa, contro il volere paterno. Lo spettatore rivede la dinamica dell’incidente in cui Conrad resiste aggrappato alla barca distrutta mentre Buck lascia la presa. Conrad riconosce anche la rabbia verso il fratello per aver mollato la presa e il suo senso di colpa per aver resistito. È proprio questo riconoscimento che consente al protagonista uno sblocco emotivo sostanziale. Alla fine del film, il padre, tra le lacrime, rivela alla madre i suoi dubbi rispetto all’autenticità della loro relazione così come di tutta la loro vita dopo la tragedia familiare. Lei, triste ma determinata, lascia la casa all’alba, se ne va in silenzio senza salutare neppure Conrad che, svegliatosi per il trambusto, chiede al padre cosa sia successo e se la madre se ne sia andata per colpa sua. Il film si conclude con un intenso abbraccio tra Conrad e il padre che sembra essere interminabile. È un abbraccio sincero ed appassionato così come il loro dialogo: entrambi sembrano essere diventati più capaci di recuperare, finalmente senza paura, le loro emozioni e poterle esprimerle a se stessi e all’altro. È un abbraccio che aiuta a sciogliere le loro difese, proprio come la poca neve sparsa rimasta nel giardino di casa, pronta a sciogliersi in una giornata che sembra preannunciarsi piena di sole. Il film solleva tanti pensieri riguardanti il nostro lavoro e non può non coinvolgerci. La morte improvvisa di un ragazzo crea un trauma che richiede ai suoi familiari un’elaborazione che passa attraverso un lungo e doloroso percorso. Nella famiglia Jarrett invece si era creata inizialmente una paralisi emozionale claustrofobica che probabilmente Conrad ha tentato di rompere con il suo agito violento. Ma è grazie alla sua esperienza analitica e alla consapevolezza a cui questa conduce, che Conrad si riappropria di parti di Sé mettendo in moto un processo di cambiamento e di riflessione nella famiglia. Si può discutere il modo provocatorio del dott. Berger di relazionarsi a lui e il setting non proprio ortodosso. Il film fa riflettere comunque sull’utilità di lavorare con gli adolescenti nel setting analitico in modo diretto e chiaro e, soprattutto sulla necessità di lavorare anche sul transfert negativo: quest’ultima elaborazione ha consentito a Conrad di cominciare a fare affiorare la rabbia che con un’immensa fatica aveva cercato di tenere sepolta ma che, in questo modo, lo allontanava da se stesso e dagli altri. Inoltre, è Conrad stesso a contattare l’analista; penso a quanto sia rispettoso ed utile per l’adolescente che sia lui stesso a farlo, quando ciò è possibile, e che un lavoro analitico possa cominciare quando l’adolescente è pronto senza sentirsi costretto prematuramente.

07/06/2012

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