Essere e avere. Commento di Mario Priori

Essere e Avere. Regia di Nicolas Philibert (2002)

Commento di Mario Priori

 

“Essere e Avere” non può essere definito come un film, ma neppure come un documentario. Non ci sono prestazioni attoriali, né sceneggiature, come d’altro canto non vi è traccia del rigore di un’indagine documentaristica. Potremmo definirlo piuttosto come un reportage esperienziale che coinvolge in modo sorprendente lo spettatore in un viaggio che dura lo spazio di un anno scolastico, in una piccola scuola rurale che accoglie nella stessa classe bambini di età diversa, da quelli che fanno il loro ingresso nella scuola materna, agli altri più grandi in procinto di congedarsi per fare il passaggio nella scuola media. Una piccola comunità guidata con mano ferma da un maestro alla fine della sua carriera lavorativa.

 

Accompagna questo percorso un panorama rurale, aspro e montuoso, che più che essere un suggestivo sfondo naturalistico diventa protagonista essenziale di queste vicende scolastiche. Ci troviamo nella regione dell’Auvergne, nella zona montuosa del Massiccio Centrale francese. Il succedersi delle stagioni e le mutazioni della natura, con il loro alternarsi ineluttabile, introducono una dimensione implacabile di un tempo che scorre e che si contrappone fatalmente a quella del tempo della crescita dei bambini, a quel tempo speciale nel quale i bambini possono esitare seguendo il ritmo circolare di una rassicurante quotidianità, un ritmo quieto che troverà proprio nelle increspature improvvise di nuove esperienze gli elementi compositivi che porteranno gradualmente questi bambini verso una dimensione di tempo lineare della loro vita.

 

Il dialogo tra queste due dimensioni del tempo trova una efficace rappresentazione in una serie di struggenti inquadrature, quando attraverso i vetri delle finestre della classe la macchina da presa si tuffa tra alberi giganteschi scossi dal turbinio dei venti o nelle bufere di neve che fuori imperversano ma che non toccano lo spazio protetto dell’ordinato trascorrere delle ore nella scuola. Una scuola che è accoglienza e protezione anche attraverso questo strano edificio che nelle inquadrature notturne del suo interno, privo del vociare degli scolari, attraverso la rassegna degli oggetti e degli arredi sembra immerso in una disposizione di attesa per l’arrivo dei bambini nel giorno successivo.

 

Attraverso semplici esperienze quotidiane nella classe, lo spazio di quella sperduta scuola rurale si configura mano a mano come un vero e proprio laboratorio sperimentale della vita. Arrivi e commiati -dei piccoli al loro primo allontanamento dalla famiglia e dei grandi che passano al ciclo scolastico successivo- sono eventi ordinari, quotidiani, come lo è la scoperta di poter imparare a leggere ed a scrivere o come lo é il compito di ciascun bambino del poter collocare la propria individualità in un nuovo spazio relazionale. Tutti eventi che non sono di per sé speciali, ma che lo diventano nel modo in cui questa figura di maestro riesce a seguire con attenzione ognuno di questi passaggi. Prestare ascolto a ciascuno e talvolta, prestare le parole a chi ancora non ne trova, sono il modo in cui quegli eventi ordinari diventano preziosi.

 

La figura di questo maestro si staglia con sobrietà, non si sa molto di lui e non c’è niente di patetico neppure nelle scarna notizia del suo imminente addio al lavoro. Sappiamo di lui attraverso i gesti della quotidianità, attraverso la pacatezza sapiente di un insegnante capace di realizzare uno spazio esclusivo per ciascun bambino, con un dialogo aperto e onesto, mai incalzante, rispettoso dei ritmi di ciascun bambino, sia nei tempi dell’apprendimento che in quelli necessari per pensare alle piccole esperienze nella classe. Ma vediamo questo maestro all’opera anche in occasioni meno quotidiane e ben più cruciali. Quando parla con franchezza delle difficoltà di una bambina ad una madre angosciata, quando con parole straordinariamente semplici ed efficaci tratteggia il grave isolamento di V. dicendo semplicemente come questa figlia abbia bisogno di “aprirsi agli altri e di essere felice”. O come quando ascolta con pensosa e profonda attenzione la tragica esperienza di O., uno dei ragazzi più grandi del gruppo, alle prese con la grave malattia del padre che lo strappa alle illusioni dell’infanzia mettendolo a confronto col tragico limite della morte.

 

La presenza di questo maestro è forte, ma anche discreta, accoglie ed orienta con una fermezza pacata, per niente intimorito da fantasmi di autoritarismo e genera nella sua scuola un clima di libertà che si declina attraverso una libertà di pensiero e di espressione per ciascun bambino, piuttosto che in qualche caotico vociare.

 

Potremmo rileggere queste note alla luce di un linguaggio più specialistico, potremmo usare termini come empatia, reverie, contenimento, funzione alpha, capacità negativa o introiezione ma si rischierebbe di perdere di vista l’efficace naturalezza di questo maestro, che ha molto da insegnare. Non solo ai suoi scolari.

 

 

12/01/2018

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