M.A. Lucariello e M. Peluso, Prospettive sull'osservazione. Commento di G. Palladino

 

CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE DEL LIBRO “PROSPETTIVE SULL’OSSERVAZIONE” DI M. ANTONIETTA LUCARIELLO E MARIA PELUSO

 

Commento di Giuseppe Palladino


Il libro di Nietta Lucariello e di Maria Peluso costituisce per me un’occasione gradita per riflettere con voi sul tema che esse hanno trattato. Ci sono ovviamente molti modi per farlo e dunque è inevitabile una scelta. Comincerei dalla copertina. L’immagine del quadro di Klee “La rivolta dei viadotti” mi è familiare, ho poi scoperto che è stata utilizzata come logo di una collana di libri intitolata “Comunicazione e oltre” perché ritenuta capace di rappresentare l’esortazione a “rompere le righe” rispetto alla concezione dominante. Mi chiederei a questo proposito: l’osservazione psicoanalitica può essere messa in relazione a questa capacità di rottura? Pensando alla funzione conoscitiva resa possibile da questo particolare tipo di osservazione direi di sì. Essa infatti, come afferma Maria Peluso nel suo contributo al libro citando un lavoro di Carlo Brutti e Francesco Scotti, ha come “oggetto privilegiato” l’”oggetto occultato”, da cui deriva che “l’oggetto di ricerca è ciò che non è osservato”. Ella scrive: ”la comprensione, che l’osservatore si propone espressamente di raggiungere, riguarda non già il comportamento e le qualità esterne della persona o delle persone osservate in una data situazione, ma il loro stato mentale e le dinamiche interne che si svolgono nel “campo” costituito dall’oggetto o dagli oggetti osservati e dall’osservatore stesso, il quale può realizzare il suo compito solo riflettendo anche sui sentimenti che egli prova, apprendendo così dalla sua stessa contestuale esperienza emotiva.” E’ un processo che, similmente alla seduta di analisi, richiede un setting ed una disciplina specifici, in applicazione dei quali può aver luogo l’”apprendere dall’esperienza” secondo la teoria del pensiero delineata da Wilfred R.Bion, che parte dalla capacità primaria del neonato di poter tollerare l’assenza del seno e trasformare tale assenza nella sua rappresentazione grazie alla capacità di reverie materna. Questo tipo di osservazione, dunque, si distingue, come Nietta Lucariello afferma a sua volta, dal l’osservazione comune o ingenua e si colloca per le sue caratteristiche nell’alveo dell’ osservazione scientifica. “Nel primo caso, le diverse funzioni percettive e cognitive sono fra loro strettamente intrecciate: “si guarda e si valuta, si guarda e si deduce, si guarda e si giudica”, mentre nel secondo caso esse devono essere tenute distinte, per quanto possibile, almeno nella consapevolezza di chi osserva.” Ricordo che il problema dell’osservare o giudicare, per così dire ingenuamente, è di norma uno dei primi argomenti che si incontrano nei manuali di psicologia, quasi che il primo compito fosse quello di operare questa fondamentale discriminazione e sgombrare così il campo da una confondente commistione di elementi la cui discriminazione ed individuazione sono invece alla base di ogni ricerca o indagine. Discriminazione ed individuazione sono due concetti cardine dello sviluppo psichico, come emerge con sempre maggiore evidenza nell’ambito della psicologia scientifica e della psicoanalisi. Il lavoro mentale che ognuno di noi compie per rendere conoscibile il mondo in cui viviamo può essere a mio avviso validamente sintetizzato facendo ricorso al concetto di “ideostruttura” descritto nel capitolo “Comunicazione” dell’Enciclopedia Einaudi, di cui è autore Anthony Wilden. “L’infinito numero di messaggi che riceviamo ogni giorno dall’ambiente naturale e da quello socioeconomico –informazioni codificate in locali, rumori,strade negozi,folle,spazi vuoti,veicoli,edifici e così via – costituisce la maggior parte dei mezzi attraverso i quali il nostro ambiente si imprime in noi, contribuendo così alla nostra socializzazione, nonché alla codificazione di abitudini, desideri e valori, indipendentemente da una partecipazione consapevole. I rapporti con le persone in quanto tali operano ad altri livelli più o meno nello stesso modo. Così l’architettura dell’ambiente sociale e di lavoro è carica di valori e significati come qualsiasi altro aspetto del contesto socioeconomico. In realtà, quest’informazione trasmessa dall’esperienza, cui si partecipa e che tutto pervade, costituisce un ampio sistema di messaggi, la maggior parte dei quali non viene mai tradotto in parole (sarebbe in realtà impossibile). Esso costituisce una rete informativa carica di valori, una mappa, un sistema di memoria che s’impone al soggetto. Si è usata l’espressione rete informativa perché si tratta di un insieme di flussi di rapporti e d’informazioni, anche se, in apparenza, sembra soltanto un insieme di «oggetti». Si è parlato di mappa, in quanto costituisce un insieme di istruzioni contestuali, non verbali e prevalentemente inconsce, nonché di semplici rappresentazioni di situazioni, status e direzioni, e di percorsi disponibili o preferenziali all’interno del sistema nel suo insieme. Si è parlato di sistema di memoria perché, per dirla in termini molto semplici, non consente mai di dimenticare il luogo in cui ci si trova. Questa rete è un sistema di valori socioeconomici del tutto diverso nella sua forma dall’ideologia in quanto tale. Potrebbe essere definito anche come l’ideostruttura della società… Un’ideologia dominante e l’ideostruttura che vi è associata possono essere, di conseguenza, definite molto semplicemente come un sistema di messaggi che, in un dato contesto sociostorico, fornisce spiegazioni o razionalizzazioni sul perché il mondo è così com’è, e sul come o perché ci si può aspettare che esso cambi o no”. Un possibile esempio di questo mondo per così dire “ideostrutturato” lo fornisce il film di Peter Weir “Truman show”, citato da Antonio Vitolo nell’introduzione al libro, nel quale il protagonista vive fin dalla nascita sotto l’osservazione, a sua insaputa, di un’emittente televisiva. Poco alla volta egli raccoglie una serie di elementi osservativi che sempre più contraddicono il mondo virtuale in cui è calato fino ad arrivare a comprendere che sta vivendo in un set televisivo e ad uscirne liberato. Sappiamo, in base a meccanismi la cui conoscenza la psicoanalisi infantile e la psicologia dello sviluppo stanno sempre più sviluppando, in parallelo con altre discipline scientifiche correlate, che a introdurci al mondo, non solo dal punto di vista fisico ma anche psichico, è la madre. L’osservazione psicoanalitica, a questo proposito, è stato il nuovo strumento elaborato nell’ambito della psicoanalisi per avvicinarsi alla comprensione della relazione madre-bambino questa volta non più attraverso i ricordi e le ricostruzioni del paziente nella stanza di analisi ma, invece, nel suo svolgersi attuale, fin dai primi momenti della vita. Non è possibile qui far altro che affermare che si è trattato, a mio avviso, di un secondo passaggio rivoluzionario nell’ambito psicoanalitico, dopo quello compiuto da Melanine Klein con la fondazione della psicoanalisi infantile. Il nuovo metodo è gemmato dalla psicoanalisi kleiniana grazie a Esther Bick che nel 1963 ne ha presentato l’elaborazione definitiva nel suo articolo “Note sull’osservazione del lattante nell’addestramento psicoanalitico”. Su questo metodo, ulteriormente elaborato da Martha Harris per l’organizzazione dei Corsi Modello Tavistock, si fonda la formazione che fornisce la nostra Scuola di Specializzazione in Psicoterapia. Vorrei dare qui un piccolo esempio di osservazione psicoanaliticamente condotta. Cito un brano tratto dal contributo di Maria Peluso: “In “Nascita alla vita psichica”, Albert Ciccone.. dà un esempio di come la Harris riuscisse a cogliere il momento in cui, in un neonato di quattro mesi da lei osservato, si instaurassero i primi processi di introiezione. E’ infatti possibile,.., vedere come l’intenso succhiarsi dei pollici, per tentare di presentificare sensualmente il seno assente, lascia il posto alla «rievocazione di un ricordo interno», attraverso il parlottare tra sé del bambino con l’intonazione della voce della madre quando questa gli si rivolgeva nelle loro interazioni, ed egli, divertendosi, le rispondeva con i suoi vocalizzi.” Rileverei come nel brano citato siano presenti in essa infatti sia elementi osservativi – il succhiarsi i pollici e la vocalizzazione – sia elementi intepretativi – presentificare il seno assente – derivati dalla teoria e dalla pratica psicoanalitica di matrice kleiniana/bioniana. Rimandare a questo approccio mi sembra indispensabile per accennare al problema della conoscenza come capacità di compiere un lavoro mentale connesso all’accogliere la novità e il cambiamento. Per questo motivo scelgo un brano dell’intervista a Bion contenuta nel libro “Il cambiamento catastrofico”. “Nella psicoanalisi, quando ci si accosta all’inconscio – cioè a ciò che non sappiamo – è inevitabile sia per il paziente che per l’analista, essere turbati. In ogni studio di analista dovrebbero esserci due persone piuttosto spaventate: il paziente e lo psicoanalista. Se non sono spaventati, c’è da domandarsi perché si prendono il disturbo di scoprire quello che tutti sanno”. Per affrontare questa paura occorre una disposizione mentale che mi piace descrivere con le parole di Alessandro Bergonzoni: “predisporsi al micidiale”. Questa pre-disposizione, ovviamente, non riguarda la sola attività analitica, anche se trova in questa una sede ed un metodo privilegiati per la sua elaborazione. Spostarsi dalla realtà fisica a quella esclusivamente pensata, immaginata, fantasticata; muoversi dal singolo individuo, da parti della propria personalità, dall’infinitamente piccolo alla coppia, al gruppo, alla comunità, alla nazione, al mondo intero: saltare in un tempo infinitesimo da una dimensione ad un’altra costituisce una capacità fondamentale della nostra mente intorno alla quale senza posa e con strumenti diversi non possiamo non interrogarci. Viviamo come in un caleidoscopio in cui continuamente le configurazioni che ci si presentano assumono forme e significati diversi. Abbiamo bisogno di orientarci. Possiamo farlo però solo dalle diverse posizioni che occupiamo e da cui non possiamo prescindere: ne deriva che viviamo in mondi separati. Evandro Agazzi, un noto epistemologo, ha scritto in proposito: “Una stessa cosa è in realtà un vero fascio di oggetti, addirittura un fascio potenzialmente infinito di oggetti perché, a seconda dei punti di vista, da cui la si vuole considerare, essa diviene effettivamente oggetto di una scienza diversa e i punti di vista sono moltiplicabili all’infinito” In un periodo storico come l’attuale credo risulti particolarmente urgente creare ponti, avvicinare gli ambiti scientifici e professionali.Per, farlo occorre riflettere su questi rapporti. John Bowlby in “La psicoanalisi come arte e scienza”, prese in considerazione le due distinte posizioni dello scienziato (riferendosi alla scienza della psicologia psicoanalitica) e del professionista (riferendosi all’arte della psicoterapia psicoanalitica) vagliando i pro e i contro di ognuna delle due. Egli scrisse “L’arte della ricerca sta nel selezionare un numero limitato di problemi maneggevoli e di metodi adatti a risolverli” mentre “Scopo del professionista è quello di tenere presenti tutti gli aspetti di ciascun problema clinico che gli è richiesto di affrontare. Perciò egli non solo dovrà applicare qualunque principio scientifico che gli appaia rilevante ma dovrà utilizzare tutta la sua esperienza personale riguardo alla condizione patologica in questione e, soprattutto, dovrà prestare attenzione a quella particolare ed unica combinazione di caratteristiche che è tipica di ogni paziente”. Una considerazione analoga sulla distinzione tra metodo scientifico e metodo clinico l’ha svolta anche Stern quando si sofferma sui due diversi approcci conoscitivi relativi al “bambino osservato” e al “bambino clinico” rilevando come entrambi possono rivelarsi reciprocamente utili. Josè Bleger, inoltre, ha scritto: “Il lavoro tecnico dello psicologo, dello psichiatra e del medico assume la sua reale portata e rilevanza quando la ricerca e il compito professionale coincidono, poiché questi sono gli elementi di una prassi grazie alla quale si evita la disumanizzazione nel compito più umano, quello di comprendere e aiutare gli altri. Indagine e azione, teoria e pratica devono essere affrontati come momenti inscindibili, che fanno parte di un unico processo”. Il libro di Nietta Lucariello e Maria Peluso apre agli scenari che ho cercato di descrivere. A Nietta devo le sue penetranti considerazioni sull’evoluzione del pensiero scientifico e sulle sue relazioni con l’approccio psicoanalitico, nonché sull’arte; a Maria Peluso la capacità di illustrare il percorso che ha condotto dalla teoria e dalla clinica psicoanalitica all’osservazione e all’investigazione delle più precoci manifestazioni della vita psichica. In conclusione, desidero far presente che la pubblicazione di questo libro avviene in un periodo di particolare criticità della nostra città e della nostra società. Aldo Masullo sul Mattino del 2 ottobre ha scritto: “Napoli oggi è il veliero nella bonaccia, di cui si legge in una celebre pagina di Conrad «Non vi era segno alcuno della direzione da cui sarebbe giunto un possibile mutamento: una minaccia che ci stringeva sempre più da ogni lato… V’era una perfetta immobilità in tutte le cose». «Negli uomini era come se i sentimenti si fossero intorpiditi fino alla completa indifferenza». Così appare la Napoli di questi tempi.” Antonio Vitolo, l’autore dell’introduzione al libro, accenna a questo come a “un tempo storico non incline alla dimensione analitica per il montare di un contagio psichico collettivo che prelude a più intense violenze di massa”. I segnali sono inquietanti e, sebbene spiacevoli, non credo possano o debbano essere ignorati. Dov’è la speranza? Questa riunione, che segue al lavoro duro e solitario di chi si è immerso in una ricerca di senso e di comunicazione, non ne è forse un segno ? Ernst Bloch ne Il principio Speranza ha scritto: « L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono ».

14/02/2011

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