Lucy Freeman, La storia di Anna O. Commento di Emanuela Abballe (9 gen 2015)

Lucy Freeman. La storia di Anna O (09.01.2015)

 

Titolo originale “The story of Anna O.”, 1972 (ed. aggiornata, L’asilo d’oro 2013)


Commento di Emanuela Abballe

Siamo a Vienna, nel dicembre del 1880, Anna O. è una giovane ventunenne appartenente ad una ricca ed illustre famiglia ebraica; intelligente e brillante, gentile e dotata di grande immaginazione. I mesi di cura e presa in carico del padre malato, fino poi alla sua morte, hanno determinato in lei “una instabilità emotiva”, con serie ricadute nella deambulazione e  nella comunicazione.

 

Quando il dottore Breuer (medico curante contattato dalla famiglia) la incontra per la prima volta, Anna è stesa sul letto in silenzio, gli arti posteriori, il braccio destro e il collo sono paralizzati. La giovane è assente e lontana, il suo sguardo è vitreo. Solo sporadici colpi di tosse rompono il silenzio; la giovane accusa emicrania, perdita della vista e dell’udito, allucinazioni, capogiri, inappetenza e manifesta disorganizzazione del linguaggio. Scrive Breuer: “viveva in due mondi. In uno si comportava in modo coerente, era capace di esprimere i suoi sentimenti, anche se negativi o paurosi. Nell’altro era in preda ad allucinazioni e a immagini così terrificanti che non era in grado di pensare e di parlare secondo la logica; le sue capacità di percezione e di pensiero erano talmente sconvolte che poteva solo esprimersi con parole senza senso” (p. 28).

 

Breuer segue la giovane e inizia con lei una terapia complessa, che aprirà le porte alla psicoanalisi. Le difficoltà di Anna metteranno in contatto il medico con la complessità della mente, con “ciò che non appare”, cioè “il buio nella mia testa” (p. 26), come dice di sé Anna.

 

Breuer se ne prende molta cura, l'incontra una o due volte al giorno, per 18 mesi, affascinato, come scrive, dall’ipotesi che “ciascun sintomo fosse legato a un’esperienza, che aveva provocato nella ragazza una reazione emotiva che non riusciva a trovare espressione” (p. 53). La cura, il rievocare, in stati  crepuscolari, da parte della giovane gli avvenimenti del passato, producono una remissione dei sintomi, ma  nel frattempo, in ambedue i protagonisti, la relazione aveva  tessuto inattesi intrecci.

 

Quando Breuer decide di interrompere il trattamento, soddisfatto dei risultati fino ad allora ottenuti in una situazione così difficile, la situazione precipita. Dopo poche ore l'ultima visita del medico alla giovane, Anna ha una grave crisi. Chiamato al suo capezzale percepisce che Anna soffre le doglie di una gravidanza isterica.  La sente dire: “ecco arriva, il bambino del dottor Breuer sta nascendo!” (p. 72). L'esplicito desiderio affettivo e sessuale della giovane spaventa Breuer che, intimorito interrompe ogni cura; scrive al riguardo che: “non poteva mettere a repentaglio l’equilibrio della sua paziente, né il proprio, spingendosi nei regni oscuri della psiche che nessun uomo aveva mai sfiorato. Aveva già osato molto” (p. 74).

 

Dopo questo episodio, la giovane viene ricoverata e trascorrerà otto anni della sua vita  nella cliniche mentali.

 

La ritroviamo nel 1888 a Francoforte,  dove vive insieme alla madre, protagonista di sé, della sua identitità, del suo nome: Berta Pappenheim. E' una 30enne che,  si dedica interamente alle donne emarginate. Collabora in un orfanotrofio (1889), di cui poi diventa direttrice (1895); poi fonda la Federazione per le Donne Ebree (1904) e un Istituto pedagogico (1907). Matura forti interessi sociali e l’impegno nel campo dell'educazione femminile; traduce tra l'altro, il manifesto del movimento femminista scritto da Mary Wollstonecraft del 1792.

 

Quella che negli anni ’80 era una ragazza gravemente sofferente (Anna O.), ora è diventata una donna che si batte per il diritto all’istruzione delle donne, ritenendolo strumento principale per consentire loro di liberarsi da quel “secolare senso di inferiorità nei confronti dell’uomo” (p. 93). Il suo impegno sociale, nel 1910, si focalizza sulla protezione delle ragazze ebree della tratta e della prostituzione. Bertha viaggia in Grecia, Turchia, Egitto, Russia, incontra associazioni a difesa delle vittime di prostituzione. Sappiamo poco della sua vita privata, è ben nota però la sua dedizione ai bisognosi e il suo interesse per il collezionismo (porcellane, collane, pizzi).

 

Il lettore che scorre le pagine di “La storia di Anna O.” di Lucy Freeman (psicoanalista e psichiatra) può osservare l’evoluzione di una ragazza che ha conosciuto una grande crisi ma che poi è riuscita a diventare una donna protettrice di altre donne. In questa evoluzione, tutto sembra “capovolgersi”: Anna ragazza alla quale è stato vietato l’accesso all’università, diventa Bertha, donna filantropa e attiva femminista. Dalla “nessuno” di Vienna, diventa “qualcuno” a Francoforte. Lei che aveva conosciuto gravi tormenti psichici, può ora donare agli altri la forza della sua stessa guarigione. Lei che, per stessa ammissione di Breuer, avrebbe sicuramente trovato più sollievo nel morire, avrà, invece, un futuro segnato da scelte e realizzazioni importanti.

 

La Freeman accenna solamente alla fase di “passaggio” tra l’Anna malata e la Bertha battagliera, a quelli che definisce “gli anni persi”, concludendo che “il segreto di quegli anni rimane soltanto suo, come pare desiderasse” (p. 246).

 

Il caso di Anna O., che Breuer su consiglio di Freud descrive nel 1895 (in Studi sull’isteria), segna l’inizio della storia della psicoanalisi; è questo, infatti, il primo esempio di “cura con le parole” (chiamato, da Bertha, “pulitura del camino”), ed è anche il caso che ha incuriosito Freud, aprendolo alle riflessioni e all’interesse rispetto all’isteria, al ruolo della sessualità, dei desideri rimossi, portandolo poi alla costruzione delle teorizzazioni psicoanalitiche.

 

In questo libro, la Freeman, dopo aver raccontato la storia di Anna (parte prima, “La paziente”) e di Bertha (parte seconda, “La paladina”), cerca di approfondire la vera natura delle sue scelte e dei suoi comportamenti, il senso di grandiosità, la profonda solitudine, la rabbia, le contraddizioni, la vita di disciplina e negazioni, i suoi sentimenti ambivalenti (in una continua oscillazione tra amore e odio), la fantasia che essere donna significasse morte/fragilità, la vita dedicata agli abbandonati (dei quali, in maniera profonda, condivideva le sofferenze).

 

Così, nella terza parte (dal titolo “La donna”) la Freeman rintraccia appunto la storia di questa donna, andando oltre gli scritti di Freud e Breuer e giovandosi di testimonianze date da amici e conoscenti.

 

Infine, si interroga su quello che lei stessa definisce “il conflitto fondamentale della vita” (p. 301) di Bertha, rivelato nella fantasia di gravidanza: quello tra il desiderio di avere un figlio (essere donna) e la paura che ciò potesse realmente accadere.

 

La Freeman lascia emergere il ritratto di una donna attiva, ma sola, circondata da tante persone, ma in intimità con nessuno (“non sono necessaria per niente e per nessuno”, p. 253), che si interroga molto sul “destino di sofferenza” che ogni donna del suo tempo porta in sé, nutrendo il desiderio di un riconoscimento del ruolo della donna (“se vi sarà giustizia nel mondo a venire, le donne faranno le leggi, gli uomini faranno i bambini”, p. 278).

 

Il libro offre una prospettiva ampia, consentendoci, al di là della figura di questa “pioniera” della psicoanalisi, di avere uno squarcio della situazione delle donne del XIX secolo, mettendo anche in luce alcuni eventi drammatici di quel periodo (come la tratta delle bianche), con il racconto, tramite la vita di Anna-Bertha, di un arco di tempo che si estende dalla prima guerra mondiale all’avvento del nazismo.

09/01/2015

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