A. Di Stefano, S. Messeca, C. Pontrandolofo, I. Veglione. Sai tu quante stelle sono in cielo? Ninne nanne da paesi vicini e lontani. Commento di Daniela Bruno

Annamaria Di Stefano, Susanna Messeca, Caterina Pontrandolofo, Irene Veglione

Sai tu quante stelle sono in cielo? Ninne nanne da paesi vicini e lontani

Commento di Daniela Bruno

 

Rainer Maria Rilke nel 1899 e nel 1900 fece due viaggi in Russia (con Lou Andreas Salomé) che lasciarono un’impronta profonda nella sua anima. Sentì di aver trovato una patria        interiore identificata nei suoi immensi spazi, nei suoi riti e nelle storie popolari cantate. Era affascinato dall’immutabilità del sapere trasmesso dalla tradizione, dalla circolarità temporale, immensa e sacra, il cui inizio si perde nella notte dell’origine, la cui fine si aggancia al presente per tutti i tempi. Nel racconto ”Come il vecchio Timofej morì cantando”[1] onora le storie vissute per secoli sulle bocche degli uomini, cantate[2] secondo canoni impressi nella memoria collettiva, da cantori itineranti presenti in tutta la tradizione popolare ucraino-cosacca, che si spostavano di villaggio in villaggio. Se la prende con le storie sepolte nei libri, fatte morire dai dotti, quando invece un tempo potevano vivere spensierate su innumerevoli labbra. “Uscendo dalle labbra di colui che le cantava, di tanto in tanto andavano a deporsi dentro un cuore, nel tepore del suo buio”. “Questi canti presso certe famiglie erano patrimonio ereditario. Li si ricevevano per poi tramandarli, non senza averli utilizzati: segnati dall’impronta di un uso quotidiano e tuttavia intatti come un’antica Bibbia che passi dai padri ai nipoti. Il diseredato si distingueva dai fratelli in possesso dei loro diritti per il fatto di non saper cantare o di conoscere soltanto una minima parte dei canti appartenuti al padre e al nonno”.La sensibilità del poeta coglie l’aspetto sacro dell’incontro con la tradizione orale, radice e materia consistente dell’identità del singolo, materia collante dell’identità del gruppo.

 

Nello stesso modo anche noi dovremmo accostarci alle ninna nanne, consapevoli di doverle proteggere in quanto parte di un tesoro narrativo e musicale che rischia distinguersi cancellandosi dalla memoria collettiva. Il processo di dissolvimento è talmente avanti che la vituperata sepoltura nei libri di cui parla Rilke, nel nostro caso è l’ultimo baluardo della loro sopravvivenza.

 

Fino a pochi anni fa si lamentava l’esistenza di famiglie mononucleari, ora costatiamo la crescita di famiglie monoparentali, con un solo genitore, che non ha nessuno vicino da cui apprendere il come si fa a fare il genitore. La relazione con il bambino piccolino è tutta da costruire, tutta da inventare, testimoniata da una domanda sempre insoluta: a che distanza si deve stare per addormentare la creatura? Beh, le ninna nanne offrono una gran bella risposta: quella che consente la creazione e il mantenimento di un involucro sonoro dove mamma e bambino stanno insieme. Il bambino scivola nel sonno, si allontana dalla presenza protettrice, dal respiro condiviso, grazie alla ripetizione del fraseggio musicale e verbale, La ripetizione è di per sé confortante perché scavalca, posticipa l’inquietudine del nuovo che si è impossibilitati a controllare, spesso, nei primi tempi della crescita, foriero di antipatiche separazioni.

 

Molte ninna nanne presentano una discrasia fra la serena armonia della musica e il testo che parla dei sentimenti tutt’altro che sereni di chi canta. È come se la mamma volesse consegnare all’orecchio inconsapevole del bambino tutto ciò che la agita o la rattrista, sia che si tratti della stanchezza, del desiderio di disfarsi per un po’ del bambino o del bisogno di occuparsi un po’ dei suoi propri problemi. Cantarli al bambino è un modo per poterli almeno rinarare, spostandoli un poco da sé, cercando una catarsi momentanea in un breve spazio temporale, quello in cui il piccolo addormentandosi diventa meno urgentemente richiedente di attenzioni. Stiamo parlando dell’ambivalenza materna, questione che la cultura “borghese”, quella delle classi sociali agiate in cui l’accudimento dei figli era supportato da balie e tate, ha oscurato con un tabù sociale: non sta bene parlare di mamme mosse da sentimenti contraddittori. L’ambivalenza è una realtà emotiva. Le fiabe di tradizione orale la esplicitano con una scissione che non turba gli animi, distinguendo le mamme dalle matrigne o streghe. A fare le cose brutte sono sempre quest’ultime (vedi quello che capita ad Hansel Gretel).

 

Un antropologo, Cesare Bermani[3], ha studiato i camuffamenti dei comportamenti ambivalenti delle mamme nella cultura popolare nelle terra abruzzese degli anni settanta, descrivendo l’ostilità notturna delle madri, conseguenza di quello che era vissuto essere il vampiraggio dei lattanti sul seno di madri esauste e spesso affamate. Detto in poche parole, se capitava di trovare al mattino la culla vuota e il neonato in terra, la colpa era della strega. I pericolosi impulsi materni votati all’allontanamento del neonato inerme venivano così attribuiti alla strega del paese. Questa era bene che fosse tenuta a banda legando sul petto del piccolo “il breve”, un sacchetto di minutaglie, con il potere di distoglierla dal proposito di fare del male perché tutta presa dalla curiosità di vedere cosa contenesse. L’interpretazione sul piano simbolico rimanda a un atto sciamanico protettivo, dove “il breve” rappresenta la placenta che, riposta sul petto del piccino, ripristina l’unione madre-figlio. Alla strega (non alla madre!) è attribuita l’avidità, il gusto di tenere per sé quello che andrebbe dato al bambino. Alla strega è attribuito il potere demoniaco dell’invidia per una vita in boccio. Al noce di Benevento erano portati i piccoli che sparivano!

 

Allora perché stupirsi del potere calmante delle ninna nanne? Servivano, anzi servono, alle mamme e ai bambini per ripristinare la giusta atmosfera per fare del bene ad entrambi e per consentire un distacco temporaneo nei sogni.

 

Grazie alle “madri reverende di tutte le canzoni”, come appella Garcia Lorca[4] in le ninna nanne.

 

[1] Rainer Maria RilKe Storie del buon dio Passigli Editori 2007

 

[2] dette byline, da distinguere dai racconti fiabeschi in prosa, skazki.

 

[3] Cesare Bernami Volare al sabba Derive e approdi ed. 2008

 

[4] Federico Garcia Lorca, Sulle ninna nanne. Silani ed. 2005

07/02/2018

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