Intervista a Simonetta Adamo sul progetto Chance (II parte), di Carmine Ciannella (24.12.2012)

Simonetta Adamo: intervista sul progetto Chance

 

di Carmine Ciannella

 

II Parte


 

 

Carmine:  Mi sembra, però, che siano state descritte altre sofisticate funzioni psicologiche svolte da questa impegnativa attività seminariale nei confronti dei docenti e degli operatori coinvolti in Chance: come l'importanza di consolidare la propria identità professionale, definire solidi riferimenti teorici condivisi dal gruppo in modo da reggere all'ansia legata ai nuovi compiti che questo lavoro ha comportato, alle continue svalutazioni del ruolo operate dai ragazzi, ecc..

 

 

 

Simonetta:  Il libro che raccoglie alcuni dei seminari teorici tenuti a Chance testimonia la presenza di psicoanalisti che hanno parlato, per esempio, della doppia deprivazione; c’erano i Rustin che erano dei supervisori stabili e che venivano a Chance una volta l’anno. Il lavoro con loro è stato molto importante perché avevano questa prospettiva continuativa; hanno visto crescere il Progetto nell’arco di dieci anni. Erano più esterni, ma ne conoscevano anche la storia.

 

 Ad ogni modo è stato molto importante lavorare con gli operatori, e non in termini astratti, su concetti come il contenimento, la doppia deprivazione, sulle dinamiche fra gruppi di coetanei, su quelle che sottendono i comportamenti violenti, sulle problematiche adolescenziali di ragazzi con queste storie, sulla genitorialità.

 

 In quest’area il lavoro anche teorico di riflessione è stato molto importante; erano molti i genitori “assenti” o invischiati con la Camorra, o in carcere. Il lavoro con i genitori è stata una parte cruciale di Chance soprattutto nel tentativo di sostenere e recuperare il più possibile le loro risorse e competenze.

 

 

 

Carmine:  Sembra che anche gli aspetti informali che hanno accompagnato questi seminari hanno avuto la loro importanza. Ci sono dei passaggi, fra le cose che hai scritto, in cui parli di persone che lavorano ad un progetto comune e di un’identità di gruppo che si è andata via via formando. Forse il formarsi di questa identità è passato anche attraverso i momenti informali di queste lunghe giornate.

 

 

 

Simonetta:  Si, anche se mi ricordo sempre questo primo seminario che facemmo a luglio. Avevo invitato tutti qui a casa mia; avevo cucinato ad orari “impossibili”, ma con mio grande dolore in pochi accettarono l'invito ed il cibo rimase quasi tutto. C’era un senso di diffidenza, di distanza verso il cibo che veniva offerto a tanti livelli. C’era anche il timore che l’Università volesse fare ricerca “sulla loro pelle” e non ricerca insieme a loro.

 

 Certamente c’erano questi momenti, anche questi mutuati dall’esperienza di quando ho fatto il Corso Tavistock; Gianna Polacco ci ospitava a casa sua e c’erano sempre questi momenti conviviali che servivano anche a creare un’atmosfera diversa e dei legami diversi. Noi mangiavamo sempre insieme quando facevamo questi seminari, avevamo dei lunghi break.

 

 

 

Carmine:  Così come per il “nostro” Corso Osservativo.

 

 

 

Simonetta:  E come per il “nuovo” Corso Osservativo che ho attivato l’anno scorso. Ciò rende l’atmosfera più informale e facilita quegli scambi che non riescono a realizzarsi in contesti più formalizzati.

 

 

 

Carmine:  Abbiamo fatto prima cenno ai Gruppi Allargati. La mia esperienza è, che a differenza dei piccoli gruppi di discussione e dei gruppi orientati ad un compito, quelli con un gran numero di partecipanti instaurano un clima meno intimo e muovano ansie qualitativamente e quantitativamente differenti.

 

 Mi sono spesso chiesto se la specificità di questo setting non risieda nel fatto che in esso si attivino (e si chiariscano) dinamiche emozionali più simili a quelle che l’individuo, il singolo operatore instaura con l’Istituzione (con tutti gli elementi impersonali e spersonalizzanti che spesso tale rapporto implica).

 

 

 

Simonetta:  Certo era un gruppo che, se fossero stati tutti presenti, avrebbe potuto contenere anche sessanta, settanta persone (negli ultimi anni). C’erano alcuni che avevano dichiarato, dal principio, che non sarebbero mai venuti e ci sono stati dei momenti di grande vuoto; questa era la parte del Progetto che polarizzava i sentimenti più estremi: o era considerato fondamentale o una perdita di tempo, un’intrusione. Tuttavia era anche un momento in cui eravamo tutti alla pari; potevamo essere professori universitari, dirigenti, eravamo seduti tutti sul tappeto anche esponendoci emotivamente.

 

 Avevamo anche molto riflettuto se fosse o meno il caso di parteciparvi; però credo che ciò ha consentito di far passare l’idea che a Chance le emozioni venivano prese molto sul serio e che c’era sempre questo sforzo di non prenderle ad un livello personale, ma di ricollegarle al lavoro che si faceva. In questo senso il gruppo ci ha aiutato molto, ma è stato anche un luogo di grande sofferenza perché degli attacchi diventavano personali, perché emergevano dinamiche di alleanze, gelosie, diffidenze; tutto veniva espresso in maniera molto diretta.

 

 

 

Carmine:  Uno dei conduttori di questi gruppi è stato Romolo Petrini che ho conosciuto personalmente per delle supervisioni nel Servizio di Salute Mentale in cui lavoro.

 

 

 

Simonetta:  Romolo ha partecipato a questi gruppi negli ultimi due anni credo. Ovviamente anche la personalità del conduttore caratterizza il modo di condurre il gruppo. Se con Guelfo Margherita eravamo seduti per terra, con Romolo eravamo sulle sedie, per esempio. Lui non appartiene all’humus napoletano a differenza di Guelfo che ha lavorato in tante istituzioni sul territorio e conosceva il progetto dal di dentro, sin dall’inizio ed in tutte le sue evoluzioni. Romolo, invece, subentrando negli ultimi due anni, ha avuto di Chance una visione diversa e ha dato al gruppo un'impostazione ovviamente influenzata dal suo stile e dalla sua personalità.

 

 Si io lo avevo sentito e conosciuto proprio in occasione del corso che organizzammo, dietro tuo invito, per la Asl in cui lavori. Anche a me era piaciuto ed avevo apprezzato un aspetto molto pacato in lui. Certe volte le atmosfere a Chance erano diventate anche troppo calde, ci conoscevamo troppo, troppe emozioni, per cui mi era sembrato che potesse proporre al gruppo, che Guelfo non poteva più condurre, un approccio nuovo.

 

 Credo che lui si sia trovato in una fase di grossa difficoltà, ma anche di grandi cambiamenti istituzionali di Chance. Il gruppo era sempre sentito come molto importante, però erano in molti a non venire più agli incontri allargati; gli operatori si erano distanziati, non ce la facevano più dopo tanti anni di coinvolgimento.

 

 

 

Carmine:  Le cose da dire su Chance sono ancora tante ed andrebbero giustamente citati i numerosi riconoscimenti internazionali come quello ottenuto dal Consiglio d'Europa come uno dei sei migliori progetti europei concepiti per contrastare l'abbandono scolastico.

 

Tuttavia se è così difficile per me ricordarli tutti e ricostruire appieno il lungo e complesso viaggio che avete intrapreso, posso immaginare anche quanto sia stato faticoso oltre che affascinante.

 

 In alcuni report su Chance ci avete descritto il lato gratificante, sorprendente ed arricchente del lavoro, ma anche i costi in termini di tempo, energie mentali, professionali, emotive, ecc..

 

 

 

Simonetta:  Ancora oggi è faticoso perché la conclusione di quest’esperienza per me è stata ed è molto dolorosa.

 

 Capitava che anche degli esponenti, delle autorità napoletane, italiane andassero all’estero a congressi, magari in Svezia e si sentissero chiedere di Chance e non sapessero cosa dirne. Per un periodo avevamo telefonate dalla Cina, dal Sudamerica. Ancora l’anno scorso mi hanno chiesto una copia del film “Pesci Combattenti” perché volevano vederla al Brent Center di Londra, Centro che era stato diretto da Laufer e che è stata una culla del pensiero scientifico sull’adolescenza. Film che hanno, poi, visto e discusso.

 

 Abbiamo avuto moltissimi riconoscimenti … e disconoscimenti, continue iniezioni di coraggio e docce fredde.

 

 Fra i riconoscimenti che non hai citato c’è che Chance è stato sotto la particolare protezione del Presidente della Repubblica Ciampi. Conservo ancora nella mia agenda, dopo tredici anni credo, il telegramma che ci mandò il Presidente in uno di questi Convegni; e ogni volta che veniva a Napoli c’era sempre una frase sui Maestri di Strada, sul Diritto alla Scuola sancito dalla Costituzione, ha dato delle borse di studio, siamo stati ricevuti al Quirinale. Ci fece molto sorridere l’invito ad una mostra che si inaugurava a Firenze su strumenti scientifici antichi; ci immaginammo che oggetti conservati per centinaia di anni sarebbero potuti essere distrutti molto rapidamente e, quindi, scrivemmo che avremmo mandato una delegazione.

 

 Devo anche dire, però, che la considerazione di cui i ragazzi si sentivano investiti in questi contesti, li trasformava in gentleman. Sono stati al Parlamento Europeo a Strasburgo ed erano seduti accanto a Lord, ad alte cariche e si sono sempre comportati in maniera impeccabile.

 

 Abbiamo avuto molti riconoscimenti in convegni: Chance era considerato un modello, uno dei migliori progetti realizzati con i fondi della legge 285. Tutto questo, però, si accompagnava a continui disconoscimenti. Degli assessori, per esempio, ci accusavano di viziare questi ragazzi, di crescerli a “brioscine”; ci attaccavano in vari modi perché non capivano che Chance era un laboratorio. Cosa che ho sempre detto.

 

 Quando venne per la prima volta a farci visita il Vicesegretario del Presidente della Repubblica a Napoli – fu ricevuto al Policlinico – quello che dissi è che Chance era un laboratorio. Certo se il valore veniva misurato nel rapporto fra i novanta ragazzi e la cifra impiegata, l’investimento poteva sembrare non abbastanza “redditizio”; ma anche valutando solo questi semplici parametri, si potrebbero citare le ricerche e le tabelle che molti colleghi utilizzano per valutazioni strettamente economiche e sottolineare quanto sia più costoso per la collettività un ragazzo che inizia una carriera criminale nelle prigioni rispetto ad un progetto preventivo.

 

 Ma Chance è stato soprattutto un laboratorio proprio per la messa a punto di pratiche per questi ragazzi, per lo sviluppo di nuove professionalità. Quando sono stata chiamata a Milano, alla Bicocca, dopo un mese c’era un convegno su Chance organizzato dalla Facoltà di Pedagogia. Era una pratica che veniva studiata.

 

 Mi ha fatto molto piacere leggere dai tuoi appunti che hai incontrato insegnanti che si rifanno a questo Progetto perché, invece, anche rispetto alla scuola tradizionale Chance suscitava molti attacchi.

 

 Insomma ci sono state molte incomprensioni, attacchi; però pure riconoscimenti importanti anche da altre regioni. Un anno facemmo un gemellaggio con Reggio Children; credo che sia una delle città ed una delle scuole per l’infanzia più famose e riconosciute a livello internazionale. Alcune insegnanti portarono dei nostri ragazzi a fare degli stage lavorativi a Reggio e loro ci chiesero in cambio una formazione per i loro insegnanti che lavoravano con gli immigrati e che avevano gli stessi problemi che avevamo noi.

 

 

 

Carmine:  In altri passaggi avete anche accennato ad alcuni momenti di crisi spesso concomitanti a fasi di passaggio e di cambiamento.

 

 Fra questi mi interesserebbe approfondire quelli che hanno riguardato, anche nelle fasi di piena attività, gli interrogativi sulla possibilità/difficoltà a portare il Progetto dalla sua dimensione "sperimentale" ad una più "istituzionale" all'interno della scuola tradizionale.

 

 

 

Simonetta:  Il problema della “istituzionalizzazione” di Chance ci ha accompagnato fin dall’inizio. Ci siamo chiesti anche quanto il Progetto fosse legato alla personalità ed alle caratteristiche delle persone che lo avevano costituito ed anche alle loro doti, nel senso dei patrimoni di esperienze del gruppo fondatore. Quindi una delle domande era: “Potrà sopravvivere o no?”.

 

 Un’altra delle preoccupazioni era che Chance diventasse una ricetta: mettete 4 di questo, 3 di quello, miscelate bene e fate Chance. Con il timore anche di un annacquamento nel momento in cui il modello veniva importato in altri contesti.

 

 Questo corso cui hai partecipato, il Corso CAMEIS (Corso di Avvicinamento alle Metodologie per l’Inclusione Scolastica), causò un’enorme spaccatura all’interno del gruppo dirigente di Chance perché alcuni pensavano fosse prematuro cercare di diffondere il modello in altri contesti. Ad ogni modo era un corso che riprendeva alcune delle metodologie di Chance, ma non l’intero modello dal momento che prevedeva solo dei Seminari Teorici e delle Work Discussion con insegnanti che lavoravano nella scuola tradizionale.

 

 Questa, secondo me, fu un'esperienza molto interessante. Ad un certo punto abbiamo cominciato a pensare che ci potevano essere tanti livelli diversi a seconda dei contesti in cui le scuole erano inserite. Se è una scuola come quella di Scampia dove fuggono tutti gli insegnanti e dove c’è un turnover elevatissimo, quella è una scuola che richiede un’applicazione del modello nella sua interezza. Probabilmente invece ci sono molti altri contesti che si confrontano in misura meno accentuata con problematiche simili ed in cui un’esperienza di gruppi di discussione come quella di CAMEIS abbinata a seminari teorici, può essere una formula adatta alle esigenze e non un’amputazione del modello.

 

 Ovviamente io credo che per mettere a punto tutte queste cose ci vuole molto tempo e molto lavoro all’interno dell’equipe. Negli ultimi anni Chance non godeva più dello stesso sostegno; il clima politico era mutato, non c’erano più tutti i fondi che l’avevano alimentato e praticamente l’ultimo anno che abbiamo lavorato con il Comune – che si era impegnato a finanziare le attività sulla parola – i finanziamenti sono arrivati alla fine. Cioè quando ognuno di noi si era esposto: io avevo attivato le convenzioni con l’Università, c’erano tutti gli educatori che non erano pagati. Siamo arrivati a luglio quando, obtorto collo, è arrivata la delibera che ci riconosceva questi finanziamenti.

 

 Questo è stato l’ultimo anno con il Comune; Chance doveva poi passare alla Regione che aveva anche chiesto di estendere il modello: quindi non solo tre scuole a Napoli, ma quindici scuole in tutto il territorio. Tuttavia dall’impegno, dall’annuncio al momento in cui questi fondi sarebbero stati deliberati ed erogati, ogni anno passava sempre più tempo; ciò comportava una serie di disagi perché gli insegnanti dovevano prendere servizio nelle scuole ordinarie a cui erano assegnati dove cominciavano ad insegnare. A volte succedeva che anche a gennaio stavano ancora in quelle scuole; a quel punto avrebbero dovuto lasciare i loro studenti - cosa assolutamente contraria all’etica Chance - per cui alcuni si sospendevano dal servizio e non erano pagati, tipo Cesare Moreno. Inoltre ciò significava che il periodo scolastico di Chance si contraeva moltissimo perché a volte arrivavamo a cominciare a febbraio, a marzo.

 

 Quindi sentivamo il rischio di offrire qualcosa di estremamente ridotto e di esporci giustamente alle critiche ed agli attacchi.

 

 Poi gli insegnanti non erano scelti più dai coordinatori, ma bisognava aspettare le graduatorie. Quindi non erano quelli più motivati, ma coloro che erano rimasti senza cattedra; cambiavano ogni anno. Insomma, una serie di capisaldi del Progetto stava saltando.

 

 Purtroppo tutti questi colpi al Progetto hanno indebolito la capacità di tenuta. In altri periodi, anche se non c’erano i fondi per iniziare le attività, noi abbiamo sempre avviato il lavoro perché dicevamo: “Abbiamo un gruppo di ricerca. Questo è quello che ci legittima”. Negli ultimi tempi, invece, anche il gruppo di assistenza non si riuniva più. Come se un senso di sfiducia avesse attaccato questi apparati, questi dispositivi.


 Così, dopo un anno, non mi sono sentita di mandare nessuno nelle scuole senza una copertura istituzionale, economica, assicurativa. Perché per un anno mi ero presa questo rischio enorme. Forse anche questo è stato percepito come un abbandono; non so. Purtroppo poi la collaborazione si è interrotta.

In questa fase ero anche preoccupata del fatto che una serie di procedure che avevamo messo a punto potessero saltare per questa espansione così grossa del Progetto e che non permetteva alcuna gradualità.

Poi Marco Rossi Doria era andato via. Insomma c’erano stati tanti cambiamenti.

 

Carmine:  Sembra ci sia molta amarezza nelle tue parole.

 

Simonetta:  C’è molto dolore e, certamente, amarezza se penso alla ripresa di questo lavoro che viene identificato con il “metodo Chance” da parte delle istituzioni; ma anche noi abbiamo contribuito in larga parte a sviluppare questo modello e, di fatto, siamo stati completamente messi da parte.

L’associazione Maestri di Strada l’abbiamo fondata noi; io ne sono stata anche Vicepresidente per molti anni fino a che mi sono dimessa perché ero a Milano e volevo che fossero altre persone più in loco a subentrare.

 

Carmine:  Nei miei appunti, però, c’è un riferimento al Progetto “Tana di Volpe” che mi sembra rappresenti uno degli elementi di continuità di Chance che arriva fino ai giorni nostri.

 

Simonetta:  Mi fa piacere che tu faccia riferimento a “Tana di Volpe”. Nel 2004, quando iniziò il progetto, a Scampia c’era stata una vera e propria guerra di camorra per il controllo del traffico di droga che portò alla morte di molte persone innocenti. Il clima che Chance aveva già generato nelle istituzioni portò un gruppo di insegnanti e presidi di alcune scuole materne locali a chiedere un aiuto al servizio "Materno-Infantile" del Comune di Napoli e, da lì all’Università. In quella prima fase del progetto si lavorò con una popolazione che stava affrontando un vero e proprio trauma.

 

 Certamente seppure con difficoltà, molte delle finalità, dei dispositivi, dei modelli – sia pure adattati a questo nuovo contesto degli asili nido e delle scuole dell’infanzia -  provengono dall’esperienza Chance. Per quattordici anni siamo riusciti a far sopravvivere con Flavia Portanova questi sportelli per i genitori nelle scuole; l’anno scorso erano ventuno, fra asili e scuole dell’infanzia. Lì facciamo consultazioni con genitori e con bambini, gruppi di discussione con i genitori, gruppi con le maestre.

 

 Purtroppo già sappiamo che per l’anno prossimo non ci saranno i finanziamenti. Allora o subentreranno finanziamenti privati, oppure questo lavoro si interromperà.

 

 Comunque l’innesto di Chance in Tana di Volpe avvenne anche concretamente perché un anno facemmo la festa finale scritturando i ragazzi di Chance che avevano imparato a fare spettacoli sui trampoli.

 

 

 

Carmine:  L’immagine dei ragazzi Chance che stanno sui trampoli è molto evocativa.

 

Vorrei riprendere, però, un aspetto che abbiamo tralasciato parlando di Chance e che ricompare in Tana di Volpe per gli eventi traumatici da cui è partito: vale a dire la dimensione “terapeutica” dei due interventi.

 

 

 

Simonetta:  Tana è nata dal confluire di una serie di aspetti, ma certamente su una forte domanda delle istituzioni scolastiche. Con Flavia, in effetti, stavamo pensando e progettando degli spazi per i genitori; non solo gli sportelli di cui abbiamo parlato, ma anche dei laboratori. Quando ci fu la guerra di camorra cui facevamo riferimento, molte famiglie andarono via perché c’erano tutti questi omicidi, perché c’erano i pentiti, le faide; erano morte delle persone per strada, peraltro proprio vicino a queste scuole. Molte mamme non mandavano i bambini a scuola; allora le maestre e le dirigenti delle scuole dell’infanzia di Scampia chiesero a Flavia – allora dirigente del Progetto Zerosei – di pensare a fare qualcosa insieme.

 

 Quindi Tana nasce proprio come un tentativo di fare un progetto per un territorio traumatizzato. Qui i bambini sembravano assolutamente esposti a questa violenza, a queste morti. Gli stessi genitori erano così traumatizzati che non riuscivano più a proteggere i loro bambini. Inoltre sembrava esser venuta meno anche una solidarietà fra genitori per problemi di “appartenenza” a questa o a quella “famiglia” o clan.

 

 Tana è stato pensato molto minuziosamente già dal nome; anche la scelta della scuola fu difficile. Per esempio una struttura con uno splendido giardino, ma con i vetri delle finestre dipinte d’azzurro per non far vedere ai bambini i tossicodipendenti che si bucavano, fu scartata. Doveva essere inoltre una scuola abbastanza centrale perché le mamme avevano paura di stare per le strade con i bambini.

 

 Si trattava di un progetto che volevamo molto aperto alle famiglie: era aperto ai fratelli maggiori, ai genitori. C’erano laboratori di racconto, di gioco per i bambini; i laboratori per i fratelli maggiori, ecc.. È stato come un tentativo di creare una “zona franca” dove dei legami comunitari potessero essere ristabiliti ed i genitori potessero riconoscersi come accomunati dal fatto di avere dei bambini in quell’età e con dei problemi affini (anche se erano affiliati a clan diversi o non erano affiliati).

 

 Molti sono gli aspetti importati da Chance. Per esempio quest’attenzione alla costruzione di una rete; perché molti degli educatori che abbiamo inserito avevano fatto esperienze in quel territorio con i rom o con associazioni locali. Poi c’era questo assetto multi professionale: c’erano laboratoristi, educatori, psicologi, psicoterapeuti.

 

 Anche il discorso metodologico sulla riflessione in gruppo, sull’osservazione, sulla supervisione era molto presente. In ogni laboratorio, infatti, c’era un osservatore i cui protocolli erano la base delle supervisioni. Ovviamente qui alcune problematiche erano diverse perché qui c’erano bambini piccolissimi, ma anche molte affinità: anche qui c’era spesso solo la mamma a crescere i figli, la presenza di una violenza pervasiva, questi cicli di deprivazione che si ripetevano.

 

 Altra affinità è quella dei finanziamenti precari; tuttavia anche Tana, come Chance, è stata accompagnata da un lavoro di ricerca per cui anche su questo progetto si è scritto, l’esperienza è riportata in un altro manuale della Tavistock, se ne è parlato a congressi.

 

 Io penso che quello che si può cercare di far sopravvivere è la riflessione scientifica. Quella non te la toglie nessuno. Possono prendere il nome, dire che adottano il modello, ma la riflessione per fortuna resta legata a chi la elabora.

 

 

 

 

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

 

 

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24/12/2012

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