Il lungo cammino per discolpare le giovani madri che lavorano. Le Monde, 06/07/2011

Da “LE MONDE” del 6 / 7 2011

 

IL LUNGO CAMMINO PER DISCOLPARE LE GIOVANI MADRI CHE LAVORANO

 

di Martine Laronche


Secondo l’INSEE, un francese su due ritiene che un bambino può soffrire se sua madre lavora. Alla vigilia della Giornata internazionale delle donne mercoledì 8 Marzo, certi stereotipi sono duri a morire. Così, una persona su quattro pensa che in periodo di crisi economica gli uomini dovrebbero avere la precedenza nella ricerca di un impiego, secondo uno studio pubblicato questo mese dalla divisione degli studi sociali dell’Insee ( “Coppia, famiglia, genitorialità, lavoro delle donne, i modelli evolvono con le generazioni” di Alice Mainguenè, coll. “Insee Première). Più della metà delle persone intervistate pensano che un bambino d’età prescolare rischia di soffrire del fatto che la propria madre lavori. Le mentalità evolvono, queste convinzioni sono meno ancorate tra le più giovani. Sylviane Giampino, psicoanalista e psicologa della prima infanzia, lavora sui modelli della cura dei bambini a partire dal 1980. L’autrice di Le madri che lavorano sono colpevoli? ( Albin Michel, 2007, p.277), insorge contro il pregiudizio secondo cui i bambini si comportano meglio quando sono seguiti dalla loro madre. “Svariate ricerche non hanno potuto mettere in evidenza differenze di sviluppo intellettivo, motorio, sociale e affettivo nei bambini riguardo all’assistenza collettiva, individuale o della madre” assicura. Ciò nonostante, c’è un sovrappiù di colpa nella maggior parte delle madri che lavorano: si sentono colpevoli di non essere sufficientemente disponibili, rilassate, e presenti con i loro bambini e si rammaricano di non dare loro abbastanza. “ Hanno l’impressione di non essere la madre ideale che dovrebbero essere, prosegue la psicologa. La maggior parte del tempo, questa colpa materna è inconscia e produce dei sintomi: svalutazione e perdita di fiducia in sé e negli altri, manifestazioni somatiche nella madre e nel bambino, disfunzioni e tensioni nella coppia”. Questo sentimento di colpa è aggravato da alcuni fattori: la non-divisione dei compiti domestici e delle responsabilità familiari assicurati all’80 % dalle donne, la mancanza di strutture per la prima infanzia e l’insufficiente presa in considerazione delle responsabilità familiari da parte del mondo del lavoro. “ Quando le famiglie non sono aiutate, il primo fusibile che salta, è la coppia” lamenta la psicologa. Se i progressi sono inconfutabili, rimane ancora molto da fare per aiutare le donne a conciliare vita familiare e vita professionale. La diminuzione del tempo di lavoro, l’abbandono di ogni attività professionale, rimane appannaggio delle madri. Nei dodici mesi che seguono una nascita, il 39 % delle madri che lavorano vedono la loro attività professionale modificata per la nascita del bambino: si tratta di un cambiamento di posizione, di orari, di intensità del lavoro o di un ritiro dal mercato del lavoro (54%), secondo uno studio dell’INED pubblicato nel 2006. Questo non è il caso dei padri se non per un 6 %. Tra le madri che interrompono definitivamente o provvisoriamente di lavorare, la metà tra loro, secondo uno studio della Dares ( Direzione dell’attività della ricerca, degli studi e delle statistiche del ministero del lavoro) risalente al 2003- avrebbero desiderato proseguire la loro attività ma l’insufficienza e ed il costo delle strutture per l’infanzia le hanno costrette a rimanere al focolare domestico. Alcune imprese rimangono ancora poco disponibili di fronte a genitori che devono affrontare questo tipo di problemi. E’ stato così per Sophie ( che tiene a mantenere l’anonimato), la cui storia è tutta kafkiana. Impiegata in un ministero da quindici anni, resta incinta del suo primo bambino nel 2008. Il suo impiego a orario atipico- a volte 14 ore- un ora di mattina, a volte 4 ore di mattina-13 ore- è diventato poco compatibile con la sua gravidanza. In congedo-malattia per due settimane a causa di forti nausee e cali di pressione, si è scontrata, al suo ritorno al lavoro, con l’ostilità dei suoi dirigenti, che non comprendevano il suo congedo. Gli ha allora annunciato di essere incinta. “Il mio capo l’ha presa molto male e mi ha detto che non c’era niente da fare. Proprio come se l’avessi fatto di proposito per infastidirli, riferisce la giovane donna. Mi sentivo colpevole”. L’atmosfera nel servizio è diventata deleteria. I suoi colleghi la ignoravano per paura di essere mal visti dalla loro gerarchia. Totalmente depressa, Sophie è stata di nuovo messa in congedo per malattia. “ Ho provato ad incontrare il mio capo per chiedergli una pianificazione del mio lavoro. Ha rifiutato, spiega. Mi ha rimproverata di non avergli detto perché ero entrata in congedo la prima volta, di aver perturbato l’organizzazione del servizio. Non voleva sentire niente”. Sophie, stressata, è dovuta restare a letto a causa delle contrazioni. Alla nascita del suo primo bambino, suo marito è stato trasferito in provincia e non rientrava che ogni quindici giorni. Ha ottenuto un posto al nido, ma la sua dirigenza le ha negato degli orari normali. Nuova sospensione di un mese durante la quale è rimasta di nuovo incinta. “ Ho sempre voluto avere due bambini. Dato che ero bruciata al lavoro, mi sono detta che potevo riprendere fiato nove mesi”. Quando sperava di riprendere il lavoro alla fine del suo secondo congedo per maternità, la sua dirigenza le ha rifiutato degli orari normali, mentre il regolamento della funzione pubblica lo impone. Questo è ciò che avvenuto . Fatma Bouvet della Maisonneuve, medico psichiatra, autrice di Scelta di donne, ( Odile Jacob, 192 pag., 19 euro) vede queste donne contese tra i loro figli e la loro professione. “Alcune, quando devono annunciare la loro gravidanza al loro datore di lavoro, hanno la sensazione di essere in torto. Ciò pone un problema di fondo: la gravidanza viene percepita come un inconveniente nel mondo del lavoro. Il mondo dell’impresa si adatta male. Le donne vogliono essere perfette in ogni campo, mettono l’asta troppo alta e si esauriscono. Io provo a restituire loro fiducia ad insegnare ad esprimere i loro bisogni e a fare delle scelte”. (Traduzione dal francese di Giulia Miceli)

28/03/2012

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