Riflessioni su una psicoterapia psicoanalitica di un bambino autistico in istituzione, di A. Gentile

Riflessioni a margine su una psicoterapia

 

psicoanalitica di un bambino autistico

 

in ambito istituzionale


Aurora Gentile

Nell’attuale dibattito sulla psicoterapia psicoanalitica degli autismi dell’infanzia, penso che sia importante che i terapeuti che hanno lavorato con bambini affetti da queste patologie rendano pubbliche le loro esperienze e a maggior ragione se tali terapie sono state condotte in ambito istituzionale. Penso dunque che possa essere utile offrire questo contributo, che ha valore di testimonianza della ricchezza e della profondità del lavoro con questi bambini. Le mie riflessioni sono soprattutto cliniche. Infatti parto dall’esperienza di trattamento di un bambino con tratti autistici, che è stato condotto dalla madre alla nostra Unità Operativa di Psicologia clinica1 all’età di due anni e due mesi. La sua psicoterapia psicoanalitica si è protratta per sette anni, per i primi quattro anni di trattamento a quattro sedute la settimana, con un passaggio graduale a tre, poi a due volte, è si è conclusa anni fa, un tempo forse sufficiente perché io possa guardarla a posteriori, con una certa obiettività. Il trattamento individuale del piccolo paziente è stato affiancato da una presa in carico, individuale, dei suoi genitori, che si erano separati quando il bambino aveva circa un anno. Per certi versi l’esperienza è inconsueta, proprio per l’alta frequenza degli incontri settimanali e per la durata nel tempo, infatti, sono aspetti del setting che è difficile attuare nel servizio sanitario pubblico delle nostre regioni. Proprio per questo, però, può essere utile, una tale “eccezionale” esperienza, per riflettere sul ruolo creativo che un’istituzione, orientata al metodo psicoanalitico, può avere a sostegno della coppia analista-paziente. Si tratta quindi, per sgombrare il campo da possibili equivoci, di una psicoterapia psicoanalitica istituzionale, ispirata rigorosamente ai criteri del setting analitico, frequenza intensiva delle sedute, durata di quarantacinque minuti dell’incontro, fatta in un’istituzione, i cui membri sono analisti e psicoterapeuti psicoanalitici, e quindi formati in tal senso, così come il Direttore dell’equipe; questo ha consentito di costruire una “lingua istituzionale” comune, derivante dal modello della psicoanalisi. L’avventura istituzionale di questa cura è quindi segnata da queste fondamentali caratteristiche. Inoltre, il mio lavoro ha goduto anche della situazione privilegiata di poter discutere settimanalmente il caso con un supervisore esterno al gruppo istituzionale, il che ha consentito l’apertura di uno spazio ulteriore di riflessione, distante dalle dinamiche interne al gruppo e punto di fuga, se si vuole, permanente, di prospettiva, al quale ho attinto nuove risorse e pensieri nuovi su quanto nella relazione interna tra il piccolo paziente e me andava svolgendosi. L’esito di questo trattamento è stato positivo, non nel senso di una miracolosa guarigione, data la patologia gravissima del bambino, ma nel senso della realizzazione di una sua apertura al mondo che gli consente, oggi, non soltanto un apprendimento che avanza a livello cognitivo, ma anche una certa capacità di modulare i suoi affetti per potersi consentire legami col nuovo (nuovi educatori, nuovi amici possibili, un mondo meno spaventoso e incomprensibile), che nella realtà attuale della sua vita è forse anche al di là delle mie ottimistiche speranze iniziali, che certamente c’erano e senza le quali tra l’altro non credo che mi sarei assunta la responsabilità di questo caso. Un lungo e paziente lavoro ha anche consentito ai suoi genitori di riappacificarsi con la vita e con la sofferenza che questa anche impone. Devo anche dire che è per me commovente ora scrivere queste riflessioni fino ad oggi private, perché penso che siano anche l’espressione della mia gratitudine nei confronti di quanti hanno collaborato con me a questo risultato terapeutico, in primis la madre del bambino, la cui fiducia è riuscita a prevalere sull’odio e la disperazione. Tralascerò gli aspetti e gli interrogativi più generali che questo caso solleva a proposito del trattamento istituzionale della psicosi e del rapporto, fecondo ma al tempo stesso difficile, tra metodo psicoanalitico e istituzioni di cura, perché questi temi sono affrontati da altri colleghi in altre sezioni di questo ciclo di seminari. Mi concentrerò invece sull’importanza della creazione di un’area intermedia d’illusione2, riferendomi al pensiero di Donald Winnicott, tra il “soggetto” istituzione e la coppia psicoterapeuta-paziente per l’avvio della relazione terapeutica, quando appunto essa è condotta in un ambito istituzionale con determinate caratteristiche. Il valore della creazione di un’area intermedia d’illusione Il bambino in difficoltà psichica, e tanto più nei casi di patologie estreme, pone in effetti, forse ancora più dell’adulto, il problema dell’articolazione tra privato e pubblico, ogni pratica relazionale col bambino concerne, infatti, i disfunzionamenti del legame che egli intrattiene sin dalla nascita con gli altri esseri umani. La sofferenza legata a questi disfunzionamenti può ben incarnarsi in un individuo particolare, al quale si dà il ruolo di malato, dunque d’individuo privato, ma essa riguarda altrettanto profondamente coloro che gli sono intorno, i familiari innanzitutto, ma anche tutti quelli che costituiscono il suo ambiente allargato: la scuola, i servizi di cura o di riabilitazione. E’ quel che si può intendere, in maniera più estesa che nella psicoanalisi classica, come transfert. Sottomesso a questa sofferenza, l’entourage reagisce con quel che si può definire controtransfert, effetto specchio o trasformazione delle proiezioni trasferenziali. La sofferenza psichica, anche se essa è vissuta nel segreto di un funzionamento mentale inaccessibile agli altri e a sé, è dunque contagiosa. Diventa pubblica. La cura del bambino in difficoltà psichica grave, necessariamente articolata con la pedagogia e l’educazione, necessariamente presa nel flusso e riflusso del transfert e del controtransfert, è dunque insieme privata e pubblica, individuale e gruppale. L’esperienza mostra che, quando le condizioni ideali di lavoro d’equipe possono essere riunite per permettere di “lavorare psicoanaliticamente in molti”3 e soprattutto quando la coesione del gruppo curante intorno alla teoria condivisa è sufficiente, un vero processo può essere messo in moto. E’ l’equipe allora nel suo insieme che diventa terapeutica, con un suo controtransfert capace di accogliere i rudimentali gesti di comunicazione del bambino, dargli un senso, e restituirlo al bambino che può allora utilizzarlo; questo significa, e la mia esperienza lo attesta, la fondamentale importanza della creazione di uno “spazio intermedio” dentro cui il lavoro individuale può prendere il suo slancio e il suo sostentamento. L’istituzione allora può essere concepita come una sorta di contenitore materno che rende percorribile la relazione terapeutica. Il concetto winnicottiano di transizionalità, può ben essere d’aiuto per indicare la qualità favorevole allo sbocciare di una vita psichica nella vita istituzionale e la necessità di sospendere valutazioni troppo oggettivanti, per poter “sognare” un avvenire aperto anche nei casi di bambini gravemente danneggiati. E’ quanto si è verificato in questo trattamento. Il bambino in difficoltà psichica Il bambino all’epoca dei nostri primi incontri era sprovvisto di linguaggio e di controllo sfinterico, si alimentava ancora ed esclusivamente col biberon e appariva gravemente ritirato sul piano affettivo. Per cercare di rendere il senso dei suoi spostamenti da questa chiusura iniziale, sono metafore spaziali quelle di cui mi è più facile servirmi, del resto queste metafore sono nate proprie all’interno dell’incontro terapeutico, come se la sua crescita mentale avesse proceduto insieme alle sue progressive conquiste(scoperte) dello spazio (anche architettonico) del nostro centro (in questo senso faccio riferimento ai preziosi lavori di Geneviève Haag4). Dall’angolo della stanza di terapia, nel quale trovava inizialmente rifugio, dal suo cercare di proteggersi sotto la scrivania che era nella stanza5 alle corse lungo i corridoi del servizio, dalle crisi di panico (violentissime) al suo entrare discreto attraverso le porte aperte delle stanze degli altri operatori, è il nostro gruppo per intero che si è lasciato abitare dal piccolo paziente perché il mondo in cui il bambino prende coscienza del non-sé è essenziale alla costituzione della sua identità individuale. L’elasticità con cui l’intera equipe ha accolto il bambino, come renderne il senso? Si può pensare a quanto scrive Marion Milner6 sull’oggetto medium-malleabile, oggetto creato-trovato che sa adattarsi agli infiniti bisogni del bambino, una volta che è entrata in gioco la separazione originaria dalla madre, sopravvivendo alle infinite trasformazioni che il gioco relazionale gli fa subire. Il medium malleabile però ha senso, per il bambino, soltanto se l’oggetto intermediario trovato nella realtà esterna è potenzialmente creabile da lui, vale a dire può offrirgli l’illusione di modellare l’ambiente che lo circonda sufficientemente a suo modo perché ha saputo adattarsi alle sue esigenze. Ma quello che vorrei mettere in luce è che questa funzione “medium-malleabile” è stata importante per me, ancor prima che il bambino fosse in grado di sperimentarne la malleabilità, per così dire, direttamente, come accade tra la madre e il suo bambino, al tempo della nascita. E qui mi riferisco all’iscrizione di una terzeità che la vita istituzionale assicura alla coppia terapeutica, un mondo di fantasie che la sostiene, che crea spazio tra i due membri impegnati nella difficile separazione, indispensabile per la nascita psichica. Quando un’istituzione riesce a funzionare rispettando la soggettività di ognuno dei suoi membri, quindi anche le differenze e il conflitto, favorisce enormemente le sue possibilità di essere un utile ed efficace strumento di cura. In conclusione, vorrei aggiungere ancora uno spunto di riflessione a queste brevi note, che vorrebbero soltanto stimolare la discussione e certamente non tirare le somme definitive di questa esperienza, vale a dire il ruolo che ha la storia di una istituzione nella trasmissione alle generazioni più giovani, storia, memorie, che a nostra volta noi trasmettiamo a quelli che sono più giovani di noi oggi. Nel mio caso, nel mio gruppo istituzionale, i miei colleghi più anziani e più esperti sono stati per me “quelli che hanno aperto le strade” sulle quali avventurarmi.

13/07/2012

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