Inaugurazione Rubrica. Di A. Borrelli

 

Inaugurazione Rubrica 

Diari Clinici ai tempi del coronavirus

 

A cura di Annalucia Borrelli

 

L’immagine che abbiamo scelto per inaugurare la nuova e, si spera, temporanea rubrica del sito richiama con immediatezza la situazione pandemica che stiamo attraversando come se la parola “covid 19” fosse un serpeggiare, un intrufolarsi, un mormorio costante di sottofondo che permea ormai da qualche mese le nostre vite.

Attraverso la rubrica vogliamo raccogliere le nostre esperienze terapeutiche, le nostre riflessioni sul riverbero interno che tale parola, sconosciuta a molti di noi fino a poco tempo fa, ha avuto nelle vite dei nostri pazienti e quali temi ha innescato e perché no, anche il riverbero che ha avuto nelle nostre stesse vite.

Non c’è dubbio che la parola più calzante per descrivere l’attuale fenomeno sia quella che nel 1919 aveva indicato lo stesso Freud: PERTURBANTE. Prima di passare ad analizzarla nel suo significato, è interessante andare a collocare storicamente il suo saggio che porta proprio questo titolo. Il periodo della guerra era stato particolarmente duro e difficoltoso per Freud: i suoi figli erano sotto le armi e non riusciva ad averne notizia, i pazienti scarseggiavano, era difficile provvedere ai bisogni della sua famiglia ed anche sul piano scientifico si ritrovò poco fecondo, tanto da dichiarare di attendere con rassegnazione la morte. La speranza cominciò a rinascere quando, grazie alla donazione di un suo ex paziente, fondò l’Internationaler Psychoanalytischer Verlag e poi, con Ferenczi, organizzò nel 1918 a Budapest un importante congresso internazionale sulle nevrosi di guerra. L’immediato dopoguerra non fu meno difficile, segnato da lutti e perdite e dalla distanza dai suoi colleghi. Possiamo riconoscere lo stesso scenario attuale, anche se è un tipo di guerra che si combatte su altri fronti. Da questo vissuto scaturì il lavoro di Freud sul perturbante. “Non c’è dubbio che esso [moto dell’animo perturbante] appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia ed orrore, ed è altrettanto certo che questo termine non viene sempre usato in un senso nettamente definibile, tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso.” In verità, in Italiano, la parola “perturbante” traduce parzialmente la corrispondente parola tedesca: “das Unheimlich”, come lo stesso Freud scrive in una nota a piè pagina del suo saggio. Infatti egli, attratto dalle diverse sfumature di sentimenti che si nascondono nell’Unheimlich, si addentra nell’etimologia del termine che, essendo il contrario di “Heimlich” che significa “familiare”, può essere tradotto come “non familiare”. Quindi suscita spavento ciò che non ci è noto e familiare. Ma a ben vedere, non tutto ciò che non è familiare ingenera in noi spavento. La sfumatura in più che caratterizza il perturbante è che “heimlich” ha anche il significato di segreto, nascosto, pericoloso per cui con questa accezione i due termini, l’uno il contrario dell’altro, in realtà coincidono. Quindi, il perturbante è qualcosa di non familiare, ma che fa emergere qualcosa di familiare che, però, doveva rimanere segreto. In sostanza qualcosa che fa emergere dei vissuti interni preesistenti, conosciuti e familiari, ma che avrebbero dovuto rimanere nascosti, per effetto della rimozione (nel prefisso tedesco “-un).

Il lungo periodo di isolamento a cui siamo stati giustamente costretti ha slatentizzato per esempio l’esperienza perturbante, infamiliare, del vuoto e del silenzio, da quando la parola “quarantena” che avevamo letto nei libri di storia, è diventata una nostra realtà. Sono state scardinate le nostre certezze e il nostro modo di stare nel mondo. Ci siamo trovati di fronte ad un vuoto di attività, di relazioni, di gesti, di ritmi che davamo per scontati e che ci ha messo di fronte ad altri ritmi ed altre sequenze. Il silenzio che avvolge le nostre città è diventato di altro genere, non quello agostano che le spopola momentaneamente, ma quello che si impone all’ascolto di noi stessi e della potente alterità dell’altro quando non si è soli a casa. Si tratta di assenze concrete che possono far mancare la terra sotto i piedi e che indicano il gradiente della capacità di stare soli, di saper stare nel vuoto, senza urgenza di aggiungere suoni, parole, fare, rumori.

É una situazione che richiama l’esperimento del grande musicista John Cage che con la sua composizione “4’33’’” ha dimostrato che il silenzio assoluto non esiste e che il suono domina ogni momento della nostra vita, metafora del nostro suono interno, che va ascoltato se ne siamo capaci.

Silenzio significa, dunque, ascoltare, anche la propria sofferenza o essere da stimolo per non eluderla. Il kleiniano “Senso di solitudine” (1959), più che mai attuale e illuminante, segnala esattamente un sentimento, una condizione interna che dapprima evoca “il soddisfacente rapporto con la madre … uno stretto contatto tra l’inconscio della madre e quello del bambino, condizione fondamentale perché il bambino possa sperimentare l’esperienza di venir compreso nella fase preverbale “… quindi “nostalgia per una comprensione che avviene senza l’uso di parole” (Petrelli, 2019) per arrivare, pian piano, ad un bisogno di intimità con se stessi, quindi di integrazione e di dialogo. “Il senso di solitudine è descritto (…) come la spinta che, attraverso il bisogno di colmare isolamento e mancanza, va in direzione di un recupero di parti e funzioni del Sé … (Ibidem).

Nella mia pratica clinica di questo periodo ho osservato che cosa vuoto e silenzio hanno ingenerato negli adolescenti, talvolta i più rumorosi e molto presi dal loro fare.

Gli adolescenti sono i naturali depositari del perturbante, contemporaneamente figli e quindi esposti al familiare e portatori di trasformazione, di estraneità, come il corpo che cresce e a cui non possono sottrarsi.

In alcuni casi, tra quelli più avanti con l’età e con il percorso terapeutico, il fermo immagine dell’isolamento li ha posti con evidenza davanti all’abbagliante fermo in cui hanno posto le loro vite. I loro sintomi, quelli che li hanno portati in terapia, sappiamo essere il segnale di un tentativo di fermare il tempo mantenendoli nella sospensione del “non ancora” dove riescono illusoriamente a bloccare l’irreparabilità della crescita, in attesa di arrivare alla performance perfetta di un futuro prossimo, di un dopo.

Il potente esame di realtà attivato dalla pandemia, in alcuni casi ha, invece, rimesso in moto il tempo.

Inizialmente il primo disorientamento dato dall’isolamento è stato, per molti, la mancanza della ritmicità data dalle lezioni scolastiche, dalle interrogazioni, dagli incontri con i pari al sabato sera. Il troppo tempo della giornata vuota si è riempito di angosce, soprattutto per coloro che stanno preparando l’esame di maturità, perché terrorizzati dal non sapersi organizzare da soli il tempo di studio, incapaci di trovare il proprio ritmo che infantilmente era stato delegato agli odiati adulti. Più il tempo poteva essere riempito “dalle mille cose che non ho mai tempo di fare”, più diventava un abisso di indolenza e inattività. Il tempo senza tempo diveniva una fuga dall’incontro perturbante con la realtà. Pian piano il ritrovarsi soli, davanti a se stessi e senza i rumori del fuori in taluni ha modificato il modo di percepire il tempo che sentivano finalmente scorrere inesorabilmente grazie al silenzio e al fatto di essere “a tempo”, a scadenza. Il tempo ha mostrato loro la faccia dell’irreversibilità e della necessità di governarsi da soli, portandoli ad integrare e a saper alternare aspetti diversi e contrastanti vissuti di un dato momento. La paura della pandemia e dell’esame è diventata, quando è andata bene, la consapevolezza del tempo come esperienza di una crescita che si ha risorse per affrontare. Fare esperienza è diverso che conoscerla, non è un sapere teorico, ma entrare in relazione con altro lasciando che questa relazione si dispieghi nel tempo. Hanno scoperto che le sbarre della prigione non erano le mura di casa, ma il loro stesso non darsi il tempo di fare l’esperienza, talvolta evitandola, talvolta saturandola di altro.

Ho constatato, inoltre, che molti adolescenti, di solito considerati “ribelli” sono stati i più ligi nell’osservare le regole governative tanto che alcuni giornali hanno pubblicato studi e relative statistiche che li hanno definiti più responsabili degli adulti e molto più resilienti.

Le regole hanno funzionato da padre edipico che ha ridisegnato le differenze generazionali in questi ultimi anni appiattite, mettendoli a contatto con il dato di realtà fatto di paura e di vulnerabilità. Laddove hanno saputo sopportare la solitudine e non si sono dovuti quindi mostrare forti davanti ai pari, hanno potuto vedere come non persecutorie le regole, ma come salvavita, ponendoli davanti al “limite”.

La pandemia ha tolto, a volte, gli adolescenti dalla condizione di senza soluzione e senza tempo e li ha fatti riappropriare del futuro e della sua ricostruzione che ora spetta loro portare avanti.

08/05/2020

Centri Clinici AIPPI

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